LA RECENSIONE
Varese, la favola è Queen(mania)
Sfiorato l'ennesimo sold out invernale: applausi per la rapsodia che ripercorre il mito di Freddie Mercury e della sua band

Realtà o fantasia?
Meglio essere subito chiari: l’incanto portato in scena stasera, venerdì 12 gennaio, al Teatro di Varese dai Queenmania, più di una cover band ufficiale (e già non sarebbe poco pensando all’originale formazione capitanata da Freddy Mercury) è duplice.
Infatti, se da un lato il caleidoscopico show messo in scena stasera - con tanto di cameo di Katia Ricciarelli (che fa la parte di Monserrat Caballé nel duetto virtuale di Barcellona), marchio di garanzia di qualità - ricalca lo spirito grammelottiano di Dario Fo (quello dell’Uomo e della tecnologia, del 1977), rifacendosi nella forma a quella miscellanea di generi che sintetizza in nota l’esistenza umana, dall’altro, scala le sensazioni sonore con la corda tesa dell’affabulazione e la maestria di chi è abituato a eseguire partiture celeberrime intridendole coi propri colori.
Ne è risultata una favola musicale raccontata da musicisti da favola - il vocalist Sonny Ensabella (assai convincente sui toni medi, meno sugli acuti, troppo... acuti per non dire strillati, ma perfettamente calato e credibilissimo nella parte di Freddie), il bassista Luca Nicolasi (ritmica e cori puntuali e mai scolastici), il chitarrista Amudi Safa (un califfo delle sei corde che ha sciorinato assoli come ricami di gran classe: Brian May avrebbe applaudito) e il batterista Paolo Valli (il rock fatto bacchetta a costo di far tremare il teatro col suo timbro picchiato) - che poi era lo scopo dichiarato del regista Daniele Sala per mantenere fede all’idea dell’autore Francesco Freyrie.
Ingenuo, prim’ancora che improbabile il paragone con l'alchimia, non solo musicale, costruita piombo su piombo fino all’oro della leggenda da Freddie Mercury, il chitarrista Brian May, il batterista Roger Taylor e il bassista John Deacon: là si era all’alba degli Anni ’70, qui si sta nei giorni del rock in formato baby talent, o tutt’al più, in stile Cocoon.
Eppure la resa scenica e musicale è stata di ottimo livello, come pure ha confermato durante lo spettacolo e soprattutto alla fine con la standing ovation da selfie il numeroso pubblico varesino (ennesima data di cassetta per AD Management con i circa 900 presenti): il racconti rapsodico della vita di Freddie s’è trasformata così nella vivificazione della apparentemente stralunata poetica dei Queen.
Apparentemente, appunto.
Perché qui ci permettiamo di discostarci sommessamente dalla critica main stream su Queen Rhapsody: «Forse il segreto dei Queen è proprio questo: aver giocato a tenere i piedi in due staffe, uno sulla terra e l’altro nel mondo delle favole. Non ci sono messaggi sociali nelle loro canzoni, eppure, ancora oggi sono potenti, affascinanti, credibili, per nulla superati dalla realtà. La loro arte è sempre stata la messa in scena di una favola… romantica, malinconica, ironica, straziante, gioiosa, sensuale e trasgressiva. Per comprenderli non serve la ragione, bisogna solo arrendersi alla loro straordinaria capacità di affabulare, dai dischi, ai live, alle loro vite, in particolare quella di Freddie».
La storia dei Queen, da A Night at the Opera al Live Aid di Wembley è sì una favola costellata di rose ma anche di spine dolorosissime: più che una magia, un viaggio reale, compiuto da uomini capaci di compiere l’impresa di trasformare la propria passione in lavoro e la propria fatica in mito per le generazioni a venire.
Il messaggio politico c’è, eccome e non solo per la storica apparizione al Live Aid del 13 luglio 1985: non si tratta di un disimpegno analogo a quello rimproverato ai Beatles (altro paragone improponibile prima che fuori luogo), semmai il focus musicale va dritto al cuore dell’individuo, che poi è il primo elemento di ogni società.
Pensare a Another one bites the dust o a I want to break free, a All God’s People o a Killer Queen (frustata all’upper class), a Radio Gaga o a One vision solo come un (succulento) contorno di Bohemian Rhapsody o di We will rock you sarebbe riduttivo ripensando ai conflitti che squassarono gli Anni ’70.
Così come, al contrario, appare una scelta vincente, quella di raccontare un gruppo - piaccia o non piaccia - leggendario nella storia della musica mondiale, attraverso la formula del racconto della fiaba sonora senza lieto fine suo leader. Laddove musica e teatro diventano una forza sola e parlano al cuore dell’umanità di oggi, scavando le stesse emozioni di ieri. Alla ricerca dell’Uomo. Se non è politica questa...
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