STORIA
Operazione Nimrod

Londra, lunedì 5 maggio 1980. Pomeriggio. Sopra i tetti del numero 16 di Princes Gate 35 uomini coperti da passamontagna, protetti da caschi “Balaclava”, con armi a tracolla e maschere antigas, aspettavano di entrare in azione. Erano del SAS, la Special Air Services dell’esercito britannico, un corpo selezionato e specializzato per compiti anti-insurrezionali.
Quel palazzo era la sede dell’Ambasciata dell’Iran. Cinque giorni prima, intorno alle 11.30, sei persone si erano presentate all’ingresso, avevano sopraffatto l’agente di guardia e fatto irruzione. Dentro, 19 funzionari e 7 civili. La polizia era arrivata in pochi minuti e aveva isolato tutta l’area: linee telefoniche interrotte, blocco delle informazioni.
Alcune ore dopo, il primo comunicato: si trattava del “Gruppo dei Martiri”, guerriglieri nemici della rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini, al comando dell’Iran da un anno.
Soprattutto, erano in lotta per la liberazione del Kuhzestan, la provincia ricca di petrolio del sud-ovest. Abitata da una vasta minoranza di origine araba, da anni chiedeva maggiore autonomia e numerosi erano stati gli scontri con la polizia e gli attentati agli impianti petroliferi. Ma Khomeini, naturalmente non cedeva.
Alle 14 e 30 arrivò la prima richiesta: l’Iran doveva rilasciare 91 arabi prigionieri nelle carceri di Teheran. L’ultimatum sarebbe scaduto alle 12 del giorno dopo. Altrimenti, avrebbero fatto saltare in aria l’Ambasciata e ucciso tutti i 26 ostaggi.
Iniziarono così i negoziati, mentre le unità specializzate si preparavano: microfoni nelle canne fumarie e un plastico in scala dell’edificio, per organizzare il blitz.
Khomeini non intendeva subire il ricatto e il ministro degli esteri Bani Sadr, rilasciò una dichiarazione lapidaria: «adotteremo la legge del taglione». Se i terroristi avessero ucciso qualcuno, l’Iran avrebbe passato per le armi proprio i detenuti dei quali si chiedeva la liberazione.
Passarono cinque giorni di tensione, mentre la televisione trasmetteva tutto in diretta. Gli ultimatum si succedevano senza che accadesse nulla. Anzi, i terroristi liberarono cinque ostaggi in cambio di cibo e sigarette.
Per molti, non intendevano usare le armi ma soltanto richiamare l’attenzione internazionale sulle loro aspirazioni autonomistiche. In un comunicato, dopo aver “giurato” che gli ostaggi non correvano alcun pericolo, terminavano: «ci scusiamo con il popolo e il governo di Londra per il disturbo».
Ma il 5 maggio fu freddato l’addetto stampa dell’Ambasciata e il suo corpo fu lasciato all’ingresso del palazzo. Non solo: i terroristi annunciarono che avrebbero ucciso un ostaggio ogni mezz’ora. A questo punto non potevano esserci più margini per le trattative.
Margaret Thatcher, il primo ministro britannico, diede il suo assenso e alle 19 e 20 scattò l’operazione. Nome in codice: “Nimrod”.
Un’azione spettacolare: mentre gli elicotteri volteggiavano, i SAS si calarono con le funi, sfondarono a calci le finestre e lanciarono all’interno bombe-gas accecanti. Si sentirono gli spari dei fucili. Poi due esplosioni e la vampata di un incendio. Sembrò che l’Ambasciata potesse saltare in aria da un momento all’altro. Dall’interno si udivano gli ostaggi urlare. Le armi abbatterono cinque terroristi. Il quinto tentò di mescolarsi tra la folla, ma fu riconosciuto. E un solo ostaggio perse la vita. In 17 minuti era tutto finito. Un grande successo: il debutto di un nuovo modo di affrontare il terrorismo, che riscosse applausi in tutto il mondo. Ma soprattutto, per la prima volta, i telespettatori-cittadini all’ora di cena avevano assistito alla “storia in diretta”: in Italia ad esempio, le immagini passarono dal vivo durante il telegiornale.
Così, il Sas entrò immediatamente nella cultura pop: non solo nei film come I mercenari di Sylvester Stallone, ma anche nei videogiochi più famosi come Call of Duty. In effetti, quella “Storia” sembrava proprio un film, con il suo carico di emozioni, sbigottimento e fiato sospeso. O ancor più, sembrava un videogioco.
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