MORTI IN CORSIA
«Processo mediatico? Non fa paura»
L’avvocato Tizzoni, difensore di uno dei medici della commissione, spiega la strategia delle difese. «Per ora è giusto non rispondere»

«Una vicenda così complicata non si concluderà prima di avere percorso tutti e tre i gradi di giudizio, questo glielo posso dare per certo».
L’avvocato milanese Gian Luigi Tizzoni è abituato alla ribalta delle cronache: era lui il legale della famiglia Poggi nel processo che vedeva Alberto Stasi accusato dell’omicidio di Chiara, è stato lui il primo a soccorrere i feriti nell’aula del tribunale di Milano quando Claudio Giardiello, il 9 aprile 2015, ha aperto il fuoco uccidendo tre persone. Ora è lui a difendere Fabrizio Frattini, uno dei medici della commissione dell’ospedale di Saronno che non rilevò anomalie nell’operato di Leonardo Cazzaniga, il viceprimario del pronto soccorso accusato dalla Procura di avere ucciso quattro pazienti.
Molti degli indagati si stanno avvalendo della facoltà di non rispondere al magistrato negli interrogatori. Perché?
«Penso di poter rispondere per i medici che hanno fatto parte della commissione: la tesi accusatoria, nella sua parte medico-scientifica, fa leva sulla consulenza chiesta dalla Procura di Busto a degli esperti. Noi avvocati e i nostri assistiti non abbiamo ancora avuto accesso a quegli atti ed è praticamente impossibile fare cambiare idea al pm senza sapere di cosa si debba rispondere. Non mi sembra una scelta logica rispondere senza potere andare nel tecnico, quindi per ora il mio assitito e molti altri hanno preferito tacere e aspettare».
Che idea si è fatto della vicenda?
«Capirà che non posso dirlo, siamo ancora nella fase delle indagini e non posso entrare nel merito. Da quel che so è stata un’indagine lunga e complessa, credo che non manchi molto a concluderla. Da quel momento si potrà ragionare in altri termini».
Però c’è chi accusa i mezzi di comunicazione di avere già emesso il verdetto e di avere portato a conoscenza dell’opinione pubblica atti che bisognava tenere segreti. Cosa ne pensa?
«Penso che sia corretto pretendere il massimo rispetto della segretezza delle indagini. Poi, personalmente, ritengo che a indagini concluse sarebbe corretto che i media avessero accesso a tutti gli atti: darei proprio loro tutta la documentazione in modo che non debbano inseguire quello che viene detto, ma che possano valutarlo e proporlo alla gente».
Ma teme che la condanna già espressa dall’opinione pubblica possa influenzare i giudici?
«Un processo mediatico come questo o come quello di Garlasco secondo me spinge tutti gli attori e le parti a dare il meglio di sè per convincere gli altri della bontà del proprio pensiero, e se tutti danno il massimo è più facile che la verità venga a galla. Quindi no, non temo il verdetto mediatico: del resto casi come quello di Perugia - l’omicidio di Meredith Kercher, ndr - o lo stesso processo Stasi hanno dimostrato che non c’è nulla di scontato. In quest’ultimo caso, in cui sono stato parte in causa, chi si sarebbe aspettato un verdetto di colpevolezza dopo le prime assoluzioni, giunte quando invece l’opinione pubblica era per una condanna? Mi creda, eravamo proprio in pochi».
Cosa ne conclude?
«Che i giudici decidono con la loro testa, non con quello che vedono, sentono o leggono sui media. I media spingono solo tutti a impegnarsi al massimo; anzi, aggiungo che paradossalmente sarebbe giusto che tutti avessero un processo mediatico prima di quello vero».
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