IL PROCESSO
«Non portatemi a Saronno»
La preghiera di una delle presunte vittime di Cazzaniga al momento del ricovero

«Ma perché mi avete portato qui?» chiese Pier Francesco Leone Ferrazzi alla sua famiglia dopo l’accesso nel pronto soccorso di Saronno. Lui lì non ci voleva proprio andare, come se avesse un presentimento.
Malato oncologico, si era sempre fatto curare al Valduce di Como «perché», diceva sempre, «a Saronno sono un po’ dei cani, non curano bene». Era il tardo pomeriggio del 3 gennaio 2011 e il cinquantaquattrenne spirò l’indomani mattina.
Ieri, lunedì 2 giugno, in aula per la nuova udienza del processo all’ex vice primario Leonardo Cazzaniga, la moglie Maria Antonietta e il figlio Andrea hanno ripercorso le ultime ore della sua vita e soprattutto l’interazione con il medico.
«Al mattino entrò in camera Cazzaniga, disse che la situazione era compromessa, senza via d’uscita e che gli avrebbe somministrato un farmaco per accompagnarlo serenamente alla morte», ha raccontato la moglie della vittima, aiutata nel ricordo dal pubblico ministero Maria Cristina Ria che rileggeva i verbali delle dichiarazioni rilasciate all’epoca delle indagini ai carabinieri.
Una settimana dopo il decesso, la moglie tornò in pronto soccorso per ritirare le carte e incontrò Cazzaniga. «Mi chiese se avessi rielaborato il lutto e mi sembrò una domanda strana, perché una cosa così non si elabora in una settimana».
Tanto più che, a detta della donna, dopo le chemioterapie (il tumore era stato diagnosticato nel 2008) stava meglio, al punto da andare in Argentina, in Scozia, in Romania, quasi sempre per cacciare (il suo desiderio, poi assecondato dai suoi cari, era di farsi seppellire con i suoi vestiti da cacciatore).
Di altro avviso, però, si è dimostrata l’amica di famiglia Adele Adorni, medico anestesista dell’ospedale di Como. «Pier Francesco poteva definirsi malato terminale - ha spiegato -. Era allettato, si alzava con difficoltà».
C’era anche lei il giorno in cui si rese necessario il ricovero. Era a casa Ferrazzi per bere un tè quando l’uomo ebbe un mancamento. L’amica lo schiaffeggiò e lui si riprese, ma da medico la testimone consigliò di chiamare l’ambulanza.
«Non portatemi a Saronno», chiese il cinquantaquattrenne, ma gli operatori del 118 ritennero di portarlo nell’ospedale più vicino.
Anche Adele Adorni parlò con Cazzaniga in qualità di collega anestesista.
In aula lo riconosce, lui le fa un cenno di saluto con la mano. «Mi disse che pensava di fargli il propofol perché era terminale».
La dottoressa ha spiegato che morfina, propofol e benzodiazepine sono medicinali per cure palliative che si usano anche a Como «ma in dosaggi diversi, quelli di Cazzaniga mi sono parsi inusuali».
L’avvocato di parte civile Elio Giannangeli ha chiesto a madre e figlio di Ferrazzi se sono favorevoli all’eutanasia e la risposta è stata no. «Non avremmo mai dato il consenso se ce l’avessero chiesto».
Quando l’imputato annunciò l’intenzione di somministrare un farmaco che avrebbe accompagnato alla morte Pier Francesco ne presero atto.
Ieri è stata sentita anche un’altra infermiera del pronto soccorso che con Cazzaniga ebbe un rapporto complicato, soprattutto nella fase iniziale. «Mi chiamava vecchia bagascia o trans. Finché un giorno mi arrabbiai e gli dissi “come fai a dire che sono un travestito se non hai mai potuto verificare?”. Le cose da quel momento migliorarono».
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