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«Trinità e mio padre: a Varese la festa dei 50 anni»
Il figlio del regista Barboni (E.B. Clucher) in città: «Quel trionfo del 1970»

«Forse qualche altro bambino aveva più giocattoli di me, di certo io avevo il più grande, il cinema. Grazie a papà, la mia infanzia è stata straordinaria». Marco Tullio Barboni, figlio di E.B. Clucher, nome d’arte di Enzo Barboni, è stato a Varese, alla Villa Liz di Marina Castelnuovo, per partecipare, con altri vip, da Dario Ballantini a Vince Tempera, all’evento “Around The Moon - Omaggio a Buzz Aldrin”.
Per lui l’occasione di presentare il nuovo libro, “A spasso con il mago - Merlino e io”, ma anche di parlare della settima arte e, in particolare, complice la presenza dell’autore della colonna sonora, Franco Micalizzi, di “Lo chiamavano Trinità”, pellicola del padre che lo vide debuttare da aiuto regista.
Per lei il cinema non è rimasto solo un regalo speciale di quando era piccolo?
«No, è entrato nella mia vita in modo elegante e prepotente. All’inizio sì, era solo un gioco, poi è diventata una professione che mi ha portato a muovermi tra parole e immagini, regista ma anche sceneggiatore».
È stato comparsa in “Ben-Hur” e in “La baia di Napoli”, a tu per tu con i divi di Hollywood?
«Sì, ero lì, tra i tanti ma quando sei bambino di Clark Gable e di Charlton Heston ti importa poco o niente, ero rapito dagli stuntman, da chi nella corsa delle bighe rischiava di lasciarci la pelle, ed ero incantato dalla macchina cinema nel suo complesso. Certo poi quando ti trovi davanti, come è capitato, Totò e Brigitte Bardot, anche se sei un pischello comprendi l’importanza del momento e non dimentichi».
Poi il cambio di passo, con “Lo chiamavano Trinità”, diretto da suo padre, un trionfo non annunciato; chi ci lavorava aveva però sentore che sarebbe andato bene?
«Non esattamente, ma già al montaggio si ebbe la chiara percezione che eravamo davanti a qualcosa di nuovo, una piccola rivoluzione. Il progetto giunse a realizzazione per la lungimiranza di Italo Zingarelli, i produttori che lo avevano visto prima di lui lo bocciarono, alcuni brutalmente, altri spiegando che l’idea era buona ma non erano in condizioni di rischiare».
Cosa rese la formula vincente?
«Un po’ tutto ma soprattutto l’essere allo stesso tempo fedele e infedele al western, il genere restava quello ma vincevano il sole e l’allegria. Gli italiani avevano introdotto carneficine impensabili nei classici americani: per capirci, in “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges a terra restavano solo in cinque. Altra storia per “Django”: ogni giorno, prima di iniziare a girare, il regista Sergio Corbucci chiedeva divertito a Franco Nero: “Oggi quanti ne ammazziamo?” Papà, anche autore di soggetto e sceneggiatura, pensò fosse ora di cambiare: via i giustizieri vestiti di nero e dentro il cavallo con l’amica, meno pistole e meno fucili, i nemici meglio stenderli a cazzotti».
I due Trinità, il sequel andò addirittura meglio, sono tra i film italiani più visti di sempre al cinema e in tv; non male per quelli che alcuni chiamano “il western fagioli”...
«Papà aveva fatto la guerra e preso parte alla campagna di Russia. Conosceva bene la fame, quella vera, quella brutta, e sapeva che tanti della sua generazione che ci erano passati andavano al cinema. Mangiare con gusto significava ritorno alla normalità, una riconquistata gioia quotidiana che piaceva anche constatare al cinema, specie se nel piatto o nella padella stracolmi ci sono i fagioli, capaci già di loro di mettere allegria».
Tre anni fa, il 27 giugno, ci ha lasciato Bud Spencer, che dire di lui?
«Tutto il bene possibile. Posso vantarmi di essere stato suo amico, in realtà era amico di tutti, un campione dello sport e del cinema, un pezzo di pane, un uomo che faceva l’attore solo quando era sul set».
Altra pagina importante della sua vita è la laurea con Aldo Moro relatore.
«Sì, in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma con una tesi sulla censura cinematografica. Il professore era una grande persona, è stato un onore incontrarlo e ancora di più conoscerne aspetti non poi così noti. Abbiamo persino visto insieme un film, al cinema Quirinale di Roma, era “Butch Cassidy”. Anche lui adorava i western».
Prima di “Around The Moon” era mai stato a Varese?
«No, mi è piaciuta, immaginavo ci fosse tanto verde e l’ho trovato, abbiamo ricevuto un’accoglienza calorosissima, sarebbe bello tornare. Chiederò a Marina Castelnuovo se, dopo avere festeggiato il mezzo secolo dell’allunaggio, possiamo, tra qualche mese, riservare uguale sorte a Trinità».
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