IL CASO
Animali rari in gabbia
Un veterinario in aula come imputato e vittima. Certificati falsificati e animali tenuti in condizioni non idonee
A innescare la vicenda giudiziaria fu lo stesso veterinario che ora si trova a processo sia come imputato sia come parte offesa. Già, perché il professionista sessantenne si recò dai carabinieri segnalando che un allevatore di cani utilizzava, senza autorizzazione, il suo timbro e la sua firma sui libretti di vaccinazione degli animali.
Le indagini hanno portato alla luce una serie di anomalie su cui ora sta facendo chiarezza un processo penale nel Tribunale di Varese.
Alla sbarra ci sono una coppia di quarantenni e il veterinario, appunto. I primi due sono difesi dall’avvocato Patrizia Esposito, mentre il professionista è assistito dall’avvocato Federico Buzzi, per quanto riguarda la difesa, e dall’avvocato Silvia Pinorini, come parte civile.
La vicenda risale alla fine del 2015, quando il veterinario si recò dai carabinieri denunciando che un allevatore utilizzava indebitamente il suo timbro: allevatore già al centro di precedenti segnalazioni per bracconaggio. Nel dicembre di quell’anno scattò dunque la perquisizione dell’abitazione del quarantenne, condotta insieme con gli addetti dell’ente protezione animali (uno degli esperti è stato sentito in aula ieri mattina, lunedì 18 febbraio), sia in merito alla falsificazione di documenti sia per bracconaggio.
Nello scantinato furono trovati box «con quindici cani detenuti in condizioni igieniche non idonee, tra i loro stessi escrementi», ha spiegato ieri il testimone. Quella stessa mattina fu chiesto l’intervento di un veterinario dell’Asl, che riscontrò come gli animali avessero «un’infestazione massiva di pulci» ma erano in buone condizioni di salute. I cani furono posti sotto sequestro e poi, a seguito della rinuncia da parte dei proprietari, affidati a nuovi padroni. Nel cortile della casa fu poi trovata anche la carcassa di un altro cane.
La perquisizione consentì di rinvenire anche «gabbie e trappole a castello, poi otto bastoncini cosparsi di vischio». Questi ultimi sono finiti al centro di diverse interpretazioni: per l’esperto sentito in aula si trattava senza ombra di dubbio di arnesi utilizzati per la cattura illegale di uccellini; mentre per il difensore della coppia erano destinati alla cattura di topi nello scantinato.
Sempre nello stesso locale sotterraneo furono trovate gabbie con carcasse di «avifauna selvatica protetta», tra cui una cincia mora e un picchio rosso maggiore, considerati «uccelli di cattura perché privi di anello». L’ anello viene apposto alla zampa del volatile appena nato quando è allevato in cattività, per distinguerlo dagli esemplari cresciuti in natura. Unico uccello vivo trovato nella stanza fu una cincia dal ciuffo, ossia un esemplare protetto che, in base alla Convenzione di Berna, «non può essere detenuto da cattura ma solo da allevamento»: questo, sempre stando alla testimonianza dell’esperto, aveva alla zampa «un anello palesemente ovoidale, come apposto dopo e alterato».
Tutto questo per quanto riguarda il filone legato alla presunta attività di bracconaggio e maltrattamento di animali, mentre per le accuse di falso e esercizio abusivo della professione furono trovate dodici siringhe per l’inoculazione di microchip ai cani, tutte intestate al veterinario coinvolto, e una sessantina di libretti sanitari, alcuni dei quali con timbro - che risulta posto sotto sequestro, ma non è stato trovato - e firma del professionista, che ha però dichiarato di essere estraneo alla vicenda (motivo per cui risulta sia imputato sia parte offesa). Il processo è stato poi rinviato al prossimo 7 ottobre, quando saranno sentiti altri testimoni.
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