CORONAVIRUS
Tatiana ed Emily, vite in corsia
La storia di due infermiere del Circolo: la veterana che ha scelto di vivere in hotel per non contagiare i familiari e la la neolaureata catapultata in pochi giorni dai libri al reparto Covid
Tatiana, la scelta dell’hotel
«Non è vita quella di girarti e rigirarti nel letto, con la paura di respirare addosso al tuo compagno e di poterlo contagiare, no». Tatiana Irmici, 42 anni, è una infermiera di lungo corso dell’Asst Sette Laghi, che ne ha visti di reparti “brutti” e che in prima linea c’è stata per tanti anni, in Pronto soccorso. Eppure non ha timore a dire che «l’esperienza nella terapia intensiva Covid è davvero dura». Parla per se stessa ma si comprende che la sua voce racchiude la fatica di tante altre colleghe e colleghi. «Siamo stravolti...».
La storia di Tatiana è singolare non tanto per l’energia e l’impegno in quella che ritiene una missione più che un lavoro, quanto per la determinazione a proteggere la sua famiglia «ma anche i pazienti». Per la seconda volta ha infatti deciso di non tornare a dormire a casa ma di isolarsi in un albergo. Se di molti infermieri e medici era rimbalzata la notizia, nella prima fase della pandemia, della scelta di stare lontani da casa per evitare di contagiare i parenti, meno scontata è la medesima decisione reiterata in una fase in cui il coronavirus ha colpito duro, ma la percezione è forse minore anche a causa del lockdown parziale delle persone che continuano ad andare a lavorare e di molte attività commerciali comunque aperte. «Ho un compagno e un figlio adolescente e vivo in una casa con un numero limitato di locali. Se mi ammalo dove mi isolo? Come proteggo la mia famiglia? Non solo - spiega Tatiana Irmici - C’è anche il problema collegato al fatto che appunto il mio compagno va a lavorare, potrei al contrario essere io a portare il virus in ospedale...».
Per un mese, in primavera, era rimasta a casa, «ma non era vita, terrorizzata, continuavo a pulire tutto, cento volte al giorno il bagno, non dormivo più, avevo paura, quindi mi sono trasferita in hotel, una opportunità data dalla Regione, e le cose sono andate meglio - racconta l’infermiera -. Stavolta dal 22 ottobre mi sono trasferita, va bene così, torno a casa il minimo indispensabile, giusto perché la casa non cada a pezzi, faccio le pulizie e da mangiare, ma la notte, se non lavoro, ho un posto dove stare isolata e non sono terrorizzata nei miei spazi, in quelli della mia casa...». Dice che non è solo «una questione mentale, ma di reale equilibrio perché dopo 12 ore di turno devi riposare davvero e non puoi pensare solo, oddio, ora magari contagio tutti, no, non puoi».
Abita alle porte di Varese, Tatiana, «ma ci metto comunque 20 minuti a tornare, così invece sono all’Ibis hotel a due passi dall’ospedale, non si incontra mai nessuno, tutti in camera subito, nessuna vita comune, è quello che è giusto e che serve per chi svolge un lavoro come questo, in questo momento». Può permettersi di farlo, Tatiana, anche perché ha un figlio adolescente che sa badare a se stesso e comprende le motivazioni che portano la mamma a stare via da casa per la notte e in altri momenti della giornata. «Mio figlio è bravissimo, quando torno gli dico dài, accompagnami a fare un giro», abitiamo a due passi da un bosco, nella natura mi rigenero così, e lui è bravo è in quell’età in cui si vuole stare da soli, ma mi accontenta...». Tatiana Irmici ha prestato servizio in vari reparti, anche all’ospedale Del Ponte, anche in sala operatoria. «Le occasioni per lavorare in altre strutture, magari in Svizzera, con tanti colleghi che si sono trasferiti e che quando possono ti chiamano, ci sono state, ma io sono una testona e credo fermamente nel servizio sanitario pubblico, sono qui e sono contenta di esserlo». Anche se a casa, anche se chissà per quanto tempo, può tornarci solo per aprire le finestre, rifare i letti, preparare qualcosa da mangiare ai suoi cari. Con la mascherina, con nostalgia ma con meno paure.
Emily, dai libri all’Hub Covid
Tre date, tutte ravvicinate, scolpiscono il destino professionale di una giovane infermiera e raccontano indirettamente l’emergenza Covid: 2, 12 e 13 novembre. La prima è quella della laurea di Emily Bulegato, 22 anni, di Besnate. La seconda è quella in cui ha firmato il contratto di lavoro all’Asst Sette Laghi e la terza, 24 ore dopo, è quella dell’inizio dell’attività, nell’hub Covid al sesto piano dell’ospedale di Circolo. «Ho scelto io di partecipare al bando emergenza Covid, sono arrivate moltissime altre proposte, ma volevo continuare l’attività nel contesto nel quale ho svolto tirocinio per tre anni e vorrei rimanere in ospedale anche al termine del contratto, che scadrà a fine gennaio», racconta la giovane, laureatasi all’Università dell’Insubria, con la professoressa Giliola Baccin, tesi sulla deontologia e sulla correlazione tra l’esperienza della malattia e le motivazioni nella scelta della professione infermieristica.
Emily, nel giro di pochi giorni da studentessa a infermiera in un reparto Covid, come sta vivendo questo momento?
«La molla che mi ha spinto è sia professionale sia etica, bisogna essere consapevoli della realtà e avere il coraggio di dire: è una situazione di emergenza e particolare, non ci si può tirare indietro in questo momento e poi è quello che ho scelto di fare, l’infermiera, non si può prescindere dalle scelte fatte».
Qual è l’approccio di amici e parenti, che cosa le chiedono dell’attività che svolge?
«I conoscenti in particolare mi interrogano sulla situazione, c’è chi chiede se davvero l’emergenza sia tale, la domanda più frequente è “ma come stanno davvero le cose”, come se quanto si dice e degli ospedali non corrispondesse alla realtà. Le persone che mi sono più vicine spesso sono preoccupate, c’è anche timore».
È cambiata molto la sua vita da quando ha cominciato a lavorare?
«Le attenzioni da porre, anche fuori dall’ospedale, ci sono: io per esempio vivo con i miei genitori e naturalmente ci sono anche solo degli aspetti di tenerezza, la sera, prima di andare a dormire, che ora si evitano. Faccio un esempio: il bacino della buona notte, anche no. Ma i miei genitori hanno compreso e accettato la scelta che ho fatto».
Come affronta la quotidianità in un reparto Covid? si è trovata catapultata all’improvviso da un mondo protetto, quello dello studio universitario, alla realtà senza filtri, in uno dei periodo più difficili per la nostra sanità...
«È vero, non avevo mai visto tanti pazienti tutti o quasi con ossigeno ad alti flussi, sicuramente il mio è un reparto difficile da questo punto di vista, ma è quello che ho scelto di fare... percepisco il timore di chi mi sta attorno quando dico che cosa faccio ma sono soddisfatta delle mie scelte».
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