L’IMPRESA 20 ANNI DOPO
La notte della STELLA
Sudore e sangue come elementi portanti di una grande impresa. Ripercorriamo nel ricordo di Giancarlo Pigionatti quei magici giorni del 1999

Assalito da più sentimenti, che sembravano esplodere dentro di me, ero rimasto trattenuto coi piedi per terra dal lavoro che mi aspettava. Confuso tra eccitazione e freddezza, raggiunsi il Giornale per raccontare ai lettori la notte della Stella, costretto dall’impossibilità, come Pigio al dovere, di potermi abbandonare alla pazza gioia di un’intera città. Come mettere un “preservativo” alle emozioni, ancora più forti, avendo quel prezioso “fagotto” sotto la giacca, per strada, verso l’auto. Era la maglia di Gianmarco Pozzecco il quale, dopo un bagno di folla, se l’era tenuta addosso per donarmela privandosi, incredibilmente, di un ricordo-reliquia della propria storia.
In verità egli era affezionato al sottoscritto e alla Prealpina venendo, spesso, in redazione, “assediato” da impiegati, tipografi e giornalisti cui firmava autografi con divertenti dediche. Sin dalla sua prima apparizione a Varese, ero rimasto stregato dalla selvatichezza del suo modo d’essere in campo, disincantato e martellante, geniale e sfrontato, sicuro sino all’eccesso, delle sue prodezze. Che aveva coltivato sin da ragazzino tra le file di una squadra minore di Trieste, soprattutto, nella sfida cittadina con gli illustri coetanei della Stefanel (come De Pol e Fucka, se non ricordo male) i quali, vittoriosi, nonostante una sua caterva di punti, lo “liquidavano” come un “nano furioso”.
Piedi veloci e talento in versione “Matthews bianco”: il paragone mi parve calzante con quel fuoriclasse qual era Wes che, qui, anni prima, aveva fatto impazzire le difese avversarie, i compagni cui rubava la scena e il proprio allenatore, l’esausto Sacco.
A colpire era l’impressionante facilità con cui Gianmarco “dribblava” gli avversari, piuttosto, mi chiesi se, passare la palla a un compagno, non fosse per lui una vera violenza. A “scovarlo” fu Toni Cappellari, manager lungimirante e impareggiabile, avendo colto tra le pieghe di un pasticciaccio “giuridico”, in cui si erano “accartocciate” la retrocessa Livorno e la fallenda Udine, in lite per il suo cartellino, la concreta possibilità di portarlo a Varese. Roba da “Ratto delle sabine”, tanto per capirci.
L’operazione in sé non evocò alcun colpo di mercato. Il primo rapporto tra Pozzecco e Dodo Rusconi fu singolare ma, soprattutto, fastidioso per il giocatore che, pur provenendo dalla Serie A1, dovette sostenere, a suo dire, per ordine del coach, una specie di provino con elementi di serie C e D sui campetti all’aperto del Campus ma, soprattutto, a sconvolgerlo fu, all’indomani, la corsa su per le Cappelle, verso il Sacro Monte con tale Bellina in prova. Così raccontava Gianmarco della sua prima esperienza con l’allenatore, sentendosi stroncato nei suoi primi entusiasmi varesini, ancorché insensibile alle buone intenzioni del Dodo che, da tecnico serio e sapiente, avrebbe voluto inquadrarlo a un po’ di disciplina, poi preziosa in gara nel ruolo di regista.
Fine giusto ma metodo discutibile nel soffocarne l’estro libero e naturale, da proteggere invece, avendo Varese trovato quell’autentico e fenomenale personaggio che il basket italiano aspettava come un messia. La sua insofferenza diventò più acuta nel tempo, sentendosi come “imprigionato” in una camicia di forza. Inevitabilmente si giunse al dilemma: o lui o Pozzecco. Uno dei due era di troppo. Su queste colonne provocai un vivace dibattito che orientò la società a sacrificare il tecnico. Sudore e sangue, come simboli del raggiungimento di un trionfo, avevano realmente “inondato” la maglia di Gianmarco nell’ultimo guerresco assalto al titolo di fronte a una Benetton non doma, come dimostrò il “caliente” Nicola che, con una gomitata, gli ruppe il naso.
In quella magica notte si avverò quel “capolavoro di più autori” che ebbe inizio attraverso la guida sicura e intelligente di Carlo Recalcati cui mancava un trofeo dopo anni di stimata militanza. Già, ma ci voleva proprio un canturino per vincere uno scudetto atteso ventuno anni? Fu il colmo dei colmi. Ad alleggerire questa ironica combinazione erano i natali milanesi del coach, allievo del centro Pavoniano almeno sino a sedici anni, dopo uno d’apprendista alla Marelli (27.000 lire mensili il salario) e di studente serale di ragioneria, crescendo poi, cestisticamente, sotto le ali di Corsolini e Taurisano, suoi numi tutelari, in Brianza dove arrivava alle due di pomeriggio per rincasare alle undici e mezzo di sera dopo aver fatto i compiti ed essersi allenato con gli juniores e la prima squadra. Fu scelto da Edo Bulgheroni e Gianni Chiapparo di comune e forte intesa. La società, nel volere un allenatore “aziendalista”, individuò in lui l’uomo giusto, avendo egli lavorato per anni a Cantù e a Reggio Calabria ottenendo pregevoli risultati e non di meno colpiva la sua purezza professionale nell’aver accettato la panchina del Celana Bergamo, formazione di serie B pur di non restare ad aspettare, come un avvoltoio, esoneri o dimissioni di colleghi da sostituire.
Il contratto non si fece attendere: circa 150 milioni lordi di vecchie lire che diventarono poco di più ma netti all’inizio dell’”anno giubilare” per decisione, senza trattative, del presidente. Recalcati, a differenza dei suoi colleghi, ebbe subito una geniale intuizione sul conto di un Pozzecco ingestibile, da non provarci nemmeno, rimandando ai compagni la consapevolezza del loro rapporto con il play, cominciando da Meneghin e De Pol cui, di ritorno dai raduni della Nazionale, subodorava malcelati malesseri dopo che Tanjevic aveva loro riempito la testa di improperi contro Gianmarco che riteneva un perfido sfruttatore del lavoro altrui, eccitato com’era dalla propria ribalta. Fossero stati anche dissidi sotterranei, essi andavano “estirpati” sul nascere tant’è che Recalcati raccomandò a tutti, una volta accettato il compagno, di sopportarne i “vizi” avendo in cambio fior di prestazioni, utili al collettivo.
Del coach impressionava il suo equilibrio per modi, metodi e scelte, da padrone qual era della tranquillità mentale ed emotiva dei suoi giocatori che non assillava né riprendeva platealmente in caso di mancanze o di trasgressioni in determinate consegne. Come quelle, lasciate correre, non senza dissenso, a Pozzecco che, spesso, si presentava in ritardo - e non di pochi minuti - alle riunioni tecniche del sabato pure sotto gli occhi di un divertito presidente, che pareva compiaciuto d’essere a capo di una tribù a parte. E che dire ancora del play allorquando, dopo un’azione travolgente, saliva in piedi alla balaustra, proteso verso gli spalti per condividere, idealmente, le sue estasi con la folla mentre Abbio e Rossini, suoi avversari diretti, ovviamente in circostanze diverse, filavano in campo opposto per segnare indisturbati?
Sull’aereo, in un viaggio di ritorno da una trasferta europea, predissi a Recalcati, per le sue indubbie capacità di aggregare efficacemente elementi di carisma e personalità molto diverse, un futuro ruolo di cittì della Nazionale come, anni più tardi, avvenne mancando egli, però, la promessa fattami di citare la mia previsione in tivù, a reti unificate. Edoardo Bulgheroni, da presidente, era un predestinato a vincere, dotato com’era di un fresco e perentorio decisionismo, tipico di uno scommettitore che, puntando forte, sfida il rischio con chiara cognizione della realtà e grande positività, ancorché sorretto dalla profonda cultura cestistica di famiglia, ben solida nel padre Toto e nel nonno.
Nella presentazione della squadra a Villa Recalcati, con madrina l’avvenente Martina Colombari, presa la parola, l’Edo non fece il solito e banale discorso dei buoni auspici ma, come una freccia diretta sul bersaglio, profetizzò la conquista dello scudetto. Qualcuno pensò a un’uscita stravagante ma, più profondamente, la sua era una convinzione motivata dai valori della squadra. Si poteva essere d’accordo senza dover sparare cartucce ad effetto, io stesso pronosticai una finale scudetto mentre Recalcati si limitò a un quarto posto con quel suo ostinato realismo salvo poi guidare i Roosters come primo assertore convinto di un potenziale successo. Ogni giorno, di quell’estate, il presidente pressava Gianni Chiapparo, quale preziosa figura di riferimento del club nei rapporti con il mondo cestistico, ben sapendolo fervido di idee e di proposte affinché gli indicasse un giocatore “buono” da prendere.
E venne Veljko Mrsic. Che il diesse varesino aveva già seguito l’anno prima allorquando, grazie ai suoi amichevoli rapporti con Capicchioni, procuratore del croato, era riuscito a invitarlo, con la splendida moglie, a Varese. Affare fatto? Quasi, anzi no per obblighi di leva in patria: la Federazione croata si oppose al trasferimento facendolo capitano della Nazionale e il Cibona gli garantì un compenso di 40.000 dollari. L’estate seguente Chiapparo tornò alla carica con Mrsic il quale, nonostante un potente interesse di Granada, che gli offriva 230.000 dollari netti, non ci pensò un istante nello scegliere Varese pur guadagnando 50.000 dollari in meno. L’ingaggio di Giacomo Galanda fu un colpaccio di mercato come lo era stato, a suo tempo, quello di Sandro De Pol che l’Edo portò a casa, cartellino compreso, senza dover sganciare un centesimo, accollandosi, ovviamente, il suo ingaggio (circa 450 milioni lordi), tant’è che, di ritorno da Milano, raccontandomi dell’incontro con il massimo dirigente dell’Olimpia, che s’era mostrato visibilmente soddisfatto dell’operazione,, sembrò folgorato da un atroce dubbio. «Sarà mica finto?», fu il suo pensiero.
Si diceva di Galanda. Ebbene l’ex Verona, poco utilizzato dalla Fortitudo, poteva essere un’idea, costosa ma realizzabile: Bulgheroni si fiondò come un falco e lo “catturò” mettendo in conto un costo di mezzo miliardo per il suo compenso lordo ma senza una lira da versare per il “prestito” del cartellino. Un ambizioso progetto richiede audacia e innovazione che l’Edo sfoderò attraverso un’immagine nuova della squadra, targata Roosters che, idealmente, evocavano “galletti da combattimento” con relativa immagine, stile cartoon, sulle canotte. Pressoché sconosciuto era il giovane Daniel Santiago dovendo la società fidarsi delle prospettive illustrate da Chiapparo che l’aveva seguito ai Mondiali di Atene come nazionale del Portorico. Quindici minuti a gara, non malaccio a rimbalzo e in difesa: quella di Santiago fu una vera e propria scommessa. Daniel firmò un biennale, da 70.000 dollari netti il primo anno e da 120 il secondo, per dire di un affarone, a fatti compiuti.
I conti tornarono nel monte-stipendi che s’aggirava sui tre miliardi di vecchie lire, di molto inferiore a quello di società più ambiziose. In verità Recalcati non fu entusiasta di questo “acquisto” avendo prefigurato un elemento di ben altre caratteristiche, sicuramente pronto e maturo. Alto come un “grattacielo” , apertura di braccia spaventose, Daniel era un naturale intimidatore ma ancora tutto da scoprire a canestro: gli inizi furono poco incoraggianti, tra mormorii di dissenso che divennero poi critiche pungenti.
La Curva Nord di allora, attraverso un suo ciclostilato, giudicando Santiago “peggio di Buford”, giovane centro tagliato anni prima dalla Cagiva in A2, attaccò Bulgheroni, colpevole, paradossalmente, di aver messo insieme una gran bella squadra senza un pivot all’altezza, quindi il sottoscritto che, su queste colonne, ne sosteneva imperterrito la scelta.
Lo stesso Toto intervenne, a suo modo, suggerendo, discretamente, al figlio di poter riconsiderare la presenza del portoricano ma Edo tirò dritto per la strada tracciata, ripagato poi, ai massimi storici, da tanto acume. Ve lo sareste immaginato un pivot esperto e prestigioso a rimorchio di personalità così spiccate e di valore, prima o poi sarebbe insorto. Non fu il caso di Santiago, che accettò la sua parte di promessa, a volte, pure come comparsa ma, a insorgere, fu però il presidente che, eccependo sull’utilizzo ridotto del giovane pivot, accusò Recalcati di “trattare Daniel come uno junior”.
Che qualche screzio fosse rimasto? Certo fu che l’accordo tra le parti, di trovarsi a febbraio per prolungare il contratto, fu rimandato a fine stagione. Nella prima amichevole a Luino, guardando i Roosters in campo e in panchina, non ci si poteva non accorgere delle impressionanti risorse tecniche di cui era dotata la squadra, una specie di “Alitalia”, visti gli azzurri nel ruolo e dintorni non dimenticando la presenza di Cecco Vescovi difensore e assaltatore di spessore nonché “bandiera” della nostra Pallacanestro. A far lievitare il valore dei Roosters fu, in realtà, l’Eurolega attraverso formazioni avversarie potenti, basti pensare che il Pozzecco “peggiore” in quelle gare era il migliore in campionato. Quella competizione fu davvero performante: Varese, pur perdendo, faceva esperienza, soprattutto in fisicità e mentalità, vincendo poi, e puntualmente, entro i propri confini diventando ancor più competitiva, persino con un Mrsic capocannoniere (silenzioso), giocando il croato, preminentemente, di squadra e per la squadra ma “chirurgico” nelle sue selezionate conclusioni.
I Roosters trovarono sempre più convinzione e sicurezza, a tal punto da non badare, scherzandoci sopra, a una sconfitta come quella di Reggio Emilia con Carra e Davolio che parvero marziani. Nemmeno la broncopolmonite che appiedò Pozzecco per un po’ di tempo sfasciò la compattezza della squadra, ormai super resistente, pure allo scioccante battutone di Treviso (furono 47 i punti di scarto subiti) e alla fatal sconfitta patita a Masnago dalla Fortitudo che costò il primato nella “stagione regolare”.
La sosta fu salutare per recuperare Gianmarco il quale, scalpitante come un purosangue che non ama stare nel box, avrebbe voluto giocare come prima e più di prima non accettando un opportuno e graduale impiego nei quarti di finale contro Rimini. In quelle partite Gianmarco tirò, più volte e insistentemente, la giacca a Recalcati affinché lo mandasse in campo, un altro allenatore non l’avrebbe sopportato. La semifinale con la Virtus diventò decisiva a Bologna dove fu Andrea Meneghin a realizzare il canestro della vittoria con la freddezza del campione. Non poteva essere diverso il destino di Varese e del suo “figlio prediletto”, costruito in casa attraverso amorose attenzioni, sempre corrisposte, pure con gli interessi, in umiltà e dedizione al lavoro verso quella crescita che solo i grandi giocatori riescono a compiere.
Fu suggestiva e toccante l’accoglienza di Varese città che, nella notte, attraverso i luccicanti rotori, piazzati in alcune locazioni, dette un bentornato ai “Roosters finalisti”. Nell’aria già si respirava un’aria frizzante di gloria, tra sogni e realtà, in vista della finale con la Benetton, pure con la “bella” a Masnago. Molti forse se la sono dimenticata garauno che Varese fece sua solo dopo un supplementare, il bis strepitoso fu piazzato a Treviso, mancava solo l’atto finale in una Masnago in calore e gremita ben oltre la sua capienza.
E scudetto fu.
Quei play off superbi non ebbero alcun segreto se non quello della leggerezza d’animo con la quale i Roosters li affrontarono a differenza dei loro antagonisti, condannati a vincere da pressanti aspettative. Pur non senza frizioni, come ne capitano in uno spogliatoio, era la condivisione di un’intrigante sfida ad averli trasformati, pur tra immagini opposte, come il “cuor contento” di Pozzecco e l’”esasperato perfezionismo” di De Pol, in anime che battono le mani alla vita.
Dietro una storica conquista di gruppo vi sono le persone, tutte importanti nei propri ruoli, fossero anche impiegati, segretarie, magazzinieri e custodi della palestra. Una figura speciale era quella di Sandro Galleani, curatore di atleti, risanati nel fisico e di uomini, rasserenati nello spirito allorquando, confidenzialmente, si rivolgevano a lui per togliersi dall’assillo di un tormento, fosse stato anche lieve, ripresi, invece e puntualmente, in caso di discutibili comportamenti. La sua presenza fu sempre un “ponte ideale” tra club e squadra nella massima e possibile conoscenza reciproca.
Altre firme di questa impresa sono quelle di Dodo Colombo e Cedro Galli, l’uno come ferreo esponente della vecchia scuola (dei fondamentali), l’altro più da “nouvelle vague”, dunque diversi per concezione ma uguali per utilità come assistenti di Recalcati in palestra e in gara.
Armando Crugnola era un team-manager benvoluto dalla squadra che conosceva come le sue tasche avendo con essa giusti rapporti, anche d’affetto non senza fermezza, nell’usare, per esempio, l’ironia invece di un richiamo con lo stesso risultato. Mario Carletti, il dottore, era uno di famiglia, per la profonda amicizia con Toto Bulgheroni, pertanto la sua professionalità era appassionata. Tra l’altro ebbe il merito, oscuro ai più, delle “diete play off”, imposte dopo gare ravvicinate attraverso cene con un menù, rigorosamente, controllato.
Cecco Lenotti era il preparatore atletico, esemplare in testa al gruppo, nelle corse e negli esercizi, “indigesti” a Pozzecco che, paragonandolo a Rambo per la sua muscolatura, si giustificava come scansafatiche, esibendo la sua ridotta fisicità. Per significare il valore di ogni persona in una società non posso non ricordare l’Anna e l’Ilaria, le segretarie, che, a volte, si trattenevano, sino alle undici di sera, in ufficio, davanti ai fax per un tesseramento e senza che nessuno lo avesse ordinato. Meritano una citazione il compianto e integerrimo Aldo Monti e lo “sveglio” Donati, preziosi nelle loro funzioni e iniziative. Fra i dirigenti spiccò la figura di Alessandro Giani, imprenditore di Gallarate, folgorato dalla passione che imperversava gioiosamente qui, ai piedi del Sacro Monte, peraltro da allora, ogni anno, sotto Natale, invita a cena, da Venanzio, tutti gli uomini della Stella, giocatori esclusi per ovvie ragioni logistiche. All’indomani di quell’indimenticabile notte, più di quarantamila copie della Prealpina furono bruciate in poche ore come nei giorni seguenti attraverso le prime notizie sul futuro che stava, tuttavia, prendendo un’altra piega per effetto di alcuni presumibili addii a cominciare da quello di Recalcati che, attraverso il suo procuratore, l’avvocato Storelli, chiese un contratto di più anni, avendo peraltro tra le mani una sontuosa offerta di Malaga. Com’è noto egli finì alla danarosa Fortitudo che, dopo la figuraccia della cessione di Galanda alla vittoriosa Varese, riprese Jack, ben lieto di ritrovare l’allenatore della Stella.De Pol, scaduto il contratto, fu libero di accasarsi dove gli pareva più conveniente scegliendo Roma (e non il Real Madrid che l’avrebbe voluto) in virtù di un’offerta “miliardaria” mentre Mrsic accettò l’impareggiabile proposta di Malaga sulla cui panchina c’era un suo connazionale, che ben conosceva. Per blindare i suoi campioni, Varese avrebbe dovuto raddoppiare i suoi costi, eventualità impraticabile. Come dire: la festa è finita e gli amici se ne vanno. Da allora c’è però una Stella che illumina la grande storia della nostra amata Pallacanestro.
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