MITI
Zanatta, 70 anni a canestro
Uno dei grandi della Pallacanestro Varese - giocatore, gm e presidente - raggiunge un traguardo importante. E si guarda dentro

Marino, scoccano i 70...
«Non me ne rendo conto, la mia vita è stata come un flash... Bella, interessante, “piena”, non l’ho mai avvertita come un peso, anzi, è stato tutto molto “leggero” e mi pare continui a esserlo. Però, se ora mi fermo a pensare... sto male. Sto male se ricordo come, quando avevo 20 o 30 anni, vedevo le persone non di 70 anni ma anche di 60 o di 50. Sono stupito dalla velocità con cui il tempo è trascorso».
Ricorda il suo primo incontro con la pallacanestro?
«In seconda media il professore di ginnastica mi invita a frequentare un corso in centro a Milano. Io abito a San Siro, sono distante, non so niente di basket ma mi faccio convincere: non posso dire no a un insegnante... Coinvolgo Franz Di Cioccio, mio vicino di casa (poi batterista e anima della Premiata Forneria Marconi): in due è più piacevole. Una sera ci consegnano le borse della All’Onestà e scopriamo di essere nella Pall. Milano. E da lì parte la mia avventura. Un giorno, dopo quattro anni di giovanili, l’allenatore Romano Forastieri (ex giocatore anche a Varese) mi dice: “Ma ti piace giocare? Non ti vedo molto entusiasta, guarda che puoi guadagnare anche 100.000 lire il mese...”. E io: “Ma come, pagano per giocare?”. Mio padre fa il tranviere, guadagna più o meno 60.000 lire il mese, a quel punto cambiano le mie prospettive. Dopo un anno in prestito a Casale, firmo il primo contratto: un assegno da un milione di ingaggio e 100.000 lire il mese per due anni. Mio padre ancora un po’ sviene: mette l’assegno in un cassetto insieme con i buoni postali, i risparmi di famiglia; dopo un mese il presidente mi chiede: “Marino, ma non hai ancora incassato quell’assegno?”. “Non sapevamo si dovesse incassare...”».
Nel 1971 comincia l’avventura di Varese.
«Mi sembra che tutto sia già scritto: a Milano ho un contratto di cinque anni, sono in Nazionale e per la società sono un orgoglio, il primo prodotto del settore giovanile arrivato in serie A e in maglia azzurra; frequento l’università e ho una ragazza da cinque anni, non c’è alcuna intenzione di muovermi. Però il destino... Il presidente Milanaccio non riesce ad avere figli, così fa un voto: se la moglie rimane incinta, rinuncia a ciò che ha di più caro, la squadra di basket. Così accade: lui ha un figlio, la squadra in pratica si scioglie, Bovone e Cosmelli vanno a Udine, Varese vuole subito Gennari e mi ingaggerebbe solo l’anno successivo ma io mi impunto: o subito o niente. Così l’Ignis rinuncia al secondo straniero di coppa e mi ingaggia».
Ha avuto tanti allenatori storici.
«A Milano, Verri alle giovanili, poi Garbosi direttore tecnico (grande carisma), Forastieri, Percudani (un mondo nuovo), Tracuzzi (un mito), Sales (giovane ma già bravissimo). A Varese l’impatto con Nikolic: è un misto di odio sportivo e ammirazione. La sua filosofia è: “La fatica non esiste, se sei stanco è perché sei poco allenato, vai a fare un po’ di gradoni”. A fine stagione 1972/’73, dopo aver vinto tutto, in riunione ci dice che è intenzionato ad andarsene ma che rimarrebbe se noi giocatori glielo chiedessimo; parlo solo io: “Professore, non glielo chiederei nemmeno se fosse mio padre, dev’essere lei a decidere se crede ancora in noi”. E lui alla fine non rimane. Poi Gamba, che avevo già conosciuto da giocatore: un amico, anche se so che voleva scambiarmi con Bariviera. Con Messina trascorro l’anno più allegro della mia carriera: Nico rischia l’esonero ma lo salva il nostro affetto nei suoi confronti. Una menzione particolare per gli allenatori della Nazionale: grande riconoscenza a Nello Paratore e soprattutto a Giancarlo Primo, per me una persona speciale!».
Dopo due anni a Milano, il ritorno a Varese.
«È Guido Borghi a volermi di nuovo, all’insaputa di Gualco e Pentassuglia, per la mia ultima stagione a Varese da giocatore. Alla fine me ne vado con Meneghin e Morse, la vecchia squadra non esiste più. Gioco per un anno a Vigevano, poi la chiamata di Bulgheroni, mi dice che Gualco si è dimesso e mi vuole al suo posto. A Vigevano ho un altro anno di contratto a più del doppio di quanto mi offre Toto ma accetto. E non mi sono mai pentito: con Toto non ho mai più parlato di soldi, ha deciso sempre lui, per me è stato sempre un fratello maggiore, una persona fantastica».
Dieci anni dopo l’addio al basket.
«Sono presidente dall’inizio della stagione 1992/’93, dopo la retrocessione Toto ha preferito passare la mano; le cose non vanno bene, in panchina c’è Joe Isaac che è un altro mio fratello e io somatizzo, mi sento responsabile. A Pasqua mi chiama Paolo Ermolli, uno dei nostri medici: “Marino, tu non stai bene”. Depressione, una parola che neppure conoscevo. Il sole nero accompagna le mie giornate. A fine campionato manchiamo la promozione e al momento di ricominciare... non ce la faccio. Ne parlo con Toto e Achille Viganò, suo braccio destro. Non mi abbandonano, mi offrono ottime alternative in Lindt e in attività di famiglia. È la mia salvezza, insieme con l’autoironia che non mi fa mai difetto».
Non le è mai mancato il basket in questi 25 anni?
«Mi è mancato come l’aria ma, una volta uscito, ho preferito fosse per sempre. Ma mi sento sempre parte della Pallacanestro Varese».
Marino Zanatta e il culto di una famiglia meravigliosa.
«La prima volta che ho visto Millie sono rimasto incantato! Mi sono detto: “Questa è la donna della mia vita”. E così è stato. Ha saputo starmi vicina nei momenti belli e in quelli più complicati: grande donna! Michele, Marco e Margherita sono stati una benedizione, così come Alice, la mia nipotina. Adesso la famiglia si è allargata con Valeria, Rachele e Alfredo. Quando li ho tutti intorno sono la persona più felice al mondo».
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