Banche
Banche in rosso in Borsa, tra sofferenze e profumo di Texas
Mercato attende dettagli tecnici su cartolarizzazione sofferenze
Roma, 27 gen. (askanews) - Borsa più che tiepida dopo il faticoso accordo raggiunto tra l'Italia e la Ue sulla spinosa questione delle sofferenze delle banche tricolori.
Il mercato attende i dettagli tecnici dello strumento che aiuterà le banche a rendere più flessibile il loro bilancio possibilmente ampliando, ma questo dipende anche dalla domanda di credito, l'offerta di prestiti all'economia reale.
In Borsa sui big dello sportello hanno continuato a dettare legge i venditori, l'indice del settore bancario ha lasciato sul terreno il 2,04%.
"Portiamo a casa una cartolarizzazione, come quelle che fecero le banche italiane a partire dalla metà degli anni 90, con la sostanziale differenza che questa volta c'è una garanzia pubblica sulla parte di sofferenze che hanno meno probabilità di insolvenza e, forse, una maggiore sostanza dal lato delle garanzie che assistevano questi prestiti al momento della loro concessione", spiega un operatore bancario.
Non è detto che tutte le banche intraprendano la strada della cartolarizzazione delle sofferenze (200 mld lorde, 88 nette), quelle che hanno un tasso di recupero crediti robusto potrebbero anche decidere di smaltirle nel tempo, attendere un recupero del prezzo delle garanzie fornite dai debitori. Molto dipenderà dall'andamento del risultato lordo di gestione con cui si coprono le rettifiche su crediti, se robusto e capiente una cartolarizzazione con perdite da contabilizzare potrebbe essere persino sconveniente.
In ogni caso, il problema resta spinoso e gravido di criticità, lo hanno detto gli ultimi dati rilasciati dall'Eba sui crediti deteriorati (sofferenze, incagli, esposizioni scadute) delle banche dell'Unione Europea. In Italia i crediti deteriorati netti delle banche sono pari al 17,1% del Pil, la media Ue è del 7,3%, l'azionista di maggioranza della Ue, la Germania, presenta un rapporto di appena il 2,6%, pur con un Pil nominale quasi doppio a quello dell'Italia.
I crediti deteriorati "made in Italy" arrivano da lontano. Il Bollettino della Bce del gennaio 2012 già parlava chiaro: dal 2000 al 2011 per le imprese del Belpaese il rapporto tra debito (prestiti, i titoli di debito e le riserve dei fondi pensioni) e attività finanziarie (circolante e depositi, prestiti, titoli di debito, azioni e altri titoli di capitale, altri conti e riserve tecniche di assicurazione) era salito dal 60% al 100%. Cioè, le imprese non avevano più attività disponibili per garantirsi l'accesso al credito.
Un progressivo deterioramento dello standing creditizio a cui non è stata estranea la Pubblica amministrazione. A fine 2011 lo stock di debito scaduto accumulato dalla Pa verso le imprese viaggiava alla quota stratosferica di 91 miliardi di euro, grazie agli sforzi del Tesoro, lo stock si sta riducendo considerevolmente, ma il danno per le Pmi è stato rilevante: azzeramento delle capacità di finanziare il capitale circolante, lento declivio verso l'insolvenza e dunque niente rimborso dei prestiti ricevuti dalle banche.
Una storia che racconta come tra i cattivi pagatori ci sia proprio il settore statale, come non ricordare che sui 1,3 miliardi di nuovi crediti deteriorati registrati da Mps nel primo trimestre del 2015, ben 400 milioni erano erano un gentile omaggio di una sola "entità locale pubblica". Insomma, le sofferenze saranno anche figlie della recessione, ma sembrano avere molti padri.
I crediti deteriorati hanno anche uno spettro che li insegue: la regola del Texas. Non è un film di Sergio Leone e nemmeno un remake di Quentin Tarantino, ma un semplice indicatore dello stato di salute delle banche nato dopo la catena di insolvenze bancarie delle casse di risparmio del Texas. Siamo nei ruggenti anni 80. Ne fallirono in 15 anni oltre 600. La Federal Reserve, come un medico legale, fece l'esame autoptico dei deceduti per capire se, come nelle epidemie, ci fosse stato un fattore scatenante. Il virus si chiamava rapporto crediti deteriorati/patrimonio netto e nelle banche dove questo indice superava il 100%, il più delle volte il virus si era dimostrato letale. D'altra parte "la Texas rule" è semplice: se il tuo patrimonio netto è inferiore ai crediti deteriorati, non ci sono risorse sufficienti per coprire pienamente le potenziali perdite.
Le banche tricolori presentano mediamente un rapporto crediti deteriorati/ patrimonio netto (dedotti gli avviamenti) intorno al 110%. Se si guardano i dati del terzo trimestre del 2015, alcune viaggiano sotto questo linea, come Intesa SanPaolo (78%) e Unicredit (85%), altre sono ben oltre questa linea come Mps (250%) e molte altre viaggiano con rapporti superiori al 140-150%. Nessun allarme ingiustificato, la Carichieti è stata stroncata da un rapporto del 350%.
E' vero che in Italia, rispetto al Texas,i crediti deteriorati sono probabilmente assistiti da garanzie e accantonamenti maggiori ma la garanzia è uno stato d'animo, lo scopri quando provi a vendere una casa pignorata con le aste continuamente deserte fino a che il prezzo non raggiunge livelli minimi che spesso non coprono nemmeno la metà del credito ancora da riscuotere.
Il nuovo round di aggregazioni bancarie potrebbe essere un'altra freccia nell'arco per superare questo problema, maggiori dimensioni di scala possono aumentare l'efficienza e diluire il peso dei crediti deteriorati sul patrimonio netto, ma serve una accelerazione della crescita economica che rilanci la redditività con la quale si digeriscono più facilmente i crediti che non ritornato.
Le banche italiane hanno un rendimento sul patrimonio intorno al 4-5%, quelle europee viaggiano a quota 9%, dunque nel Belpaese è più difficile attrarre investitori di lungo periodo nelle banche, più facile che arrivino "capitali di ventura".
Dall'altro lato non bisogna dimenticare la pressione fiscale che grava sulle banche italiane dove il Tax rate, dati Eba, viaggia al 31,9% contro una media Ue del 26,4%.
Dopo i recenti ribassi di Borsa (19 miliardi di euro di capitalizzazione andati in fumo secondo un report di Mediobanca), gran parte delle banche quotate in Borsa valgono meno del loro patrimonio netto, ad occhio un affare a comprarle. In realtà se il valore di mercato di un'azienda presenta un avviamento negativo, come accade ora, la letteratura economica ci dice che l'avviamento negativo potrebbe certificare delle perdite future.
Si può pensare che ciò, in parte è anche vero, sia dovuto all'irrazionalità ribassista del mercato. Un punto su cui concorderebbe anche l'economista britannico John Maynard Keynes, che da eccellente speculatore amava ricordare che "il mercato può rimanere irrazionale per un tempo molto più lungo di quanto tu possa rimanere solvibile".
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