L’ANALISI
«È una congregazione. Una potenza»
La comunità cinese sotto la lente di Ascom. Il laboratorio? Un caso
La chiusura di un laboratorio tessile abusivo in via Bellinzona, con la scoperta dello sfruttamento delle persone di origine cinese coinvolte, porta a galla diversi aspetti del commercio locale. Tra reali criticità e luoghi comuni. Come: «I cinesi sono ovunque»; «Ci sono sempre più negozi di cinesi perché loro hanno sgravi fiscali che gli italiani non hanno»; «Sono tutti irregolari, quei negozi andrebbero chiusi»; «Non c’è più il made in Italy, fanno tutto i cinesi». Sono queste le frasi che si sentono molto più frequentemente. Dunque, tra anagrafe e Ascom è tempo di fare chiarezza sulla realtà cittadina.
Innanzitutto è sbagliato parlare di invasione cinese a Gallarate. Nel 2016 i gallaratesi provenienti dal Sol levante erano 611. Una crescita c’è stata, ma a dicembre 2017 il numero era 656, ovvero 344 uomini e 312 donne. Non è quindi una delle comunità più nutrite: c’è chi, come i gruppi di origine albanese e pakistana, supera le mille unità.
Eppure la presenza delle attività commerciali cinesi, sul territorio, è molto concreta e diffusa. «È una congregazione di tante persone messe insieme», spiega Gianfranco Ferrario, direttore di Ascom. «Si muovono insieme e si concentrano su determinate attività. Come, per esempio, il fatto che molto spesso le badanti siano ucraine. Sono target di riferimento. Nel caso della Cina, però, si tratta di una potenza. Se si muove l’1 per cento della popolazione, spostano un numero di persone che copre il Nord Italia».
Certo è, inoltre, che i target orientali sono vastissimi. I veri e propri ristoranti cinesi sono sempre più in calo, a vantaggio di una ristorazione orientale che spazia dalla Cina al Giappone alla Corea e Thailandia, e sono sempre più frequenti i saloni di bellezza e i bazar. Esercizi che aprono, ma lontani dal luogo comune che siano figli di agevolazioni fiscali. «Oggi un’impresa, che sia italiana, o no, non ha un trattamento di favore», aggiunge Ferrario. «Le aziende sono uguali, non c’è disparità. Poi il reddito prodotto, se viene esportato, diventa un problema di chi lo genera. Le realtà cinesi, o in generale straniere, hanno una logica commerciale di persone con nazionalità diversa, ma con un obiettivo comune e preciso». Il problema del Made in Italy è concreto, ma molto è stato fatto e la linea presa è precisa: «Si arriverà ad avere un tracciamento della filiera produttiva come già è presente nella carne e nel cibo. Le etichette sono già state regolate, ora verrà fatto altrettanto con il tessile».
Quanto emerso nel laboratorio gallaratese, però, non deve portare a generalizzazioni. «Fa più rumore una pentola che cade di cento che continuano a bollire», prosegue Ferrario. «La legalità deve essere al primo posto, e questi controlli sono la prova che ci sono e funzionano. Ci sono casi che vanno controllati, ma che non siano di cattivo esempio: possiamo farcela».
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