INTERVISTA
Gherardo Colombo: perché bisogna ascoltare i ragazzi
Con quale attenzione ascoltiamo i nostri ragazzi? Quale peso attribuiamo alle parole dei bambini, alle loro opinioni? Purtroppo, non sempre quello dovuto. Il tema non riguarda naturalmente solo i nostri tempi e la nostra società, la fretta, la mancanza di tempo, le giornate che si affastellano una dietro l’altra troppo dense di impegni. Non solo. Riguarda tutti ed è di estrema importanza, tanto che esiste un articolo della Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il numero 12, che prevede il diritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i processi decisionali che li riguardano e il corrispondente dovere, da parte degli adulti, di tenerne in adeguata considerazione le opinioni.
Proprio l’articolo 12 è il tema dell’edizione di quest’anno di «Esprimi i tuoi diritti», il concorso messo a punto da Unicef Varese e Villaggio Sos di Morosolo per le scuole di ogni ordine e grado del territorio. Il lancio del concorso è affidato a una mattinata che coinvolge gli studenti di terza media partecipanti alla passata edizione di «Esprimi i tuoi diritti». In programma mercoledì 12 ottobre a Varese, alle ore 10 nell’aula magna dell’università dell’Insubria, quella di via Dunant 3, l’incontro è intitolato «Il giusto peso» e ha un ospite speciale, Gherardo Colombo, ex magistrato e attuale presidente di Garzanti Libri.
Nel passato di Colombo ci sono inchieste celebri come la scoperta della Loggia P2, il delitto di Giorgio Ambrosoli, Mani Pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Nel presente, dopo che nel 2007 ha dato le dimissioni da magistrato, la scrittura di saggi e, soprattutto, lo stare in mezzo ai giovani per portare nelle scuole i temi della legalità.
Gherardo Colombo, perché non diamo il giusto peso alle parole dei bambini?
«Perché non abbiamo la disponibilità ad ascoltare, pensiamo di avere la verità in tasca e riteniamo che le loro opinioni non abbiano rilievo. Tra l’altro, così facendo, ci dimentichiamo di come eravamo alla loro età, quando eravamo noi ad aver bisogno di ascolto e risposte. Risposte che non sempre arrivavano. Devo dire che sono abbastanza stupefatto del fatto per cui crescendo si assuma un ruolo e ci si chiuda in esso. Non tener conto delle opinioni dei ragazzi rivela una paura immensa di essere messi in crisi nelle proprie certezze».
Lei ha figli?
«Sì, tre: una di 43 anni, uno di 22 e una di 20 anni».
E con loro come si è comportato?
«Eh, dipende… Fino a certo punto sono stato dell’opinione che fosse anche necessario avere una posizione di autorità, pur cercando di essere comprensivo. Adesso credo di essere un po’ diverso, più disponibile anche a cambiare posto, cioè a mettermi nei panni dei miei figli. Da giovane facevo fatica, ma neanche ci pensavo poi molto, era così e basta. Invece ora sono convinto che esistano più punti di vista legittimi e che sia necessario comprendere quelli dei propri figli. O, almeno, provarci sempre».
Ma quando un ascolto può essere definito buono e costruttivo?
«Quando è vero, quando sinceramente poniamo attenzione alle parole, siamo lì, presenti con la testa. Altrimenti è come ascoltare e non sentire».
Perché non concedere un buon ascolto è un peccato che probabilmente sconteremo?
«Perché i figli impareranno lo stesso atteggiamento di paura e chiusura, cresceranno con l’idea che non ci si ascolta e diventeranno incapaci di instaurare e mantenere relazioni vere, cioè fondate sull’attenzione e lo scambio».
Non ascoltare gli altri è un problema enorme fra gli adulti, che discutono moltissimo, anche sui social, ma raramente si prendono la briga di comprendere le opinioni altrui.
«Sono assolutamente d’accordo, in generale è così. Questo ci ha resi una non comunità, non lo siamo. I nostri due grandi problemi sono: non essere comunità e avere la mentalità dei sudditi».
Che cosa intende?
«Che abbiamo sempre bisogno di una mamma che pensi per noi. Il suddito è uno che vive di elargizioni e questa cosa, per esempio, sta alla base della corruzione: pagare il pubblico ufficiale per ottenere qualcosa che, in genere, non si può avere. Noi abbiamo paura di essere responsabili e quindi ci comportiamo come bambini che sanno benissimo che comunque c’è la mamma che decide e dispone. Finché si è bimbi è un conto, ma da adulti ciò implica il fatto che non si sceglie mai, non si prende posizione, ma chi non sceglie non è libero perché libertà vuol dire scelta».
È un atteggiamento che emerge anche quando siamo chiamati a votare, o quando ci si dovrebbe mobilitare tutti insieme per sostenere certi diritti civili…
«Certo, l’atteggiamento riguarda tutta una serie di situazioni. Quando si va a votare c’è quello che dice: ci penso io per tutti, voi non andate, state a casa, ma è solo un’ottima propaganda elettorale».
Tornando ai ragazzi, negli ultimi anni lei li ha scelti come interlocutori principali: cosa ha imparato da loro?
«I ragazzi sono molto più liberi degli adulti e da loro ho imparato che si può persino cambiare idea senza contraddire se stessi».
Nelle scuole a parlare di legalità che cosa la sorprende di solito?
«Noto che il livello di conoscenza è molto basso. I ragazzi non conoscono la storia, il significato delle parole, in particolare alle scuole medie, e ciò vuole dire che gli insegnanti non dedicano abbastanza attenzione alla cura del lessico. C’è una mancanza di conoscenza davvero diffusa, anche di fatti storici non così lontani nel tempo. Ecco, io mi stupisco che ci siano ragazzi che non conoscono quasi niente del passato più recente e prendono cantonate immense come pensare che la bomba di piazza Fontana l’abbiano messa le Brigate Rosse».
E di positivo che cosa vede?
«Vedo una gran voglia di conoscere e di farsi coinvolgere. I giovani sono molto curiosi, ma questa curiosità bisognerebbe alimentarla anche in ambito familiare».
C’è qualcosa che noi adulti non facciamo, oppure sottovalutiamo?
«Tante cose. Non li ascoltiamo, li consideriamo con estremo distacco, non abbiamo capito che il nostro ruolo è quello di aiutarli a diventare grandi. E poi siamo incoerenti: tra quello che diciamo e quello che facciamo c’è spesso contraddizione e ciò è grave perché s’insegna di più con l’esempio che con le parole. E infatti siamo mancanti anche dal punto di vista formale. Non si possono dare note per i ritardi a scuola se poi anche l’insegnante arriva in ritardo. Non si può rimproverare un figlio perché usa troppo il telefonino se poi il genitore è sempre connesso. Piccole mancanze che però scardinano la vita di relazione in famiglia e a scuola».
È una visione un po’ pessimista la sua, o sbaglio?
«Le fotografie non sono pessimiste, raccontano ciò che c’è, non posso farci niente se la situazione è questa. Ma io dico anche che si può cambiare: basta impegnarsi, dar maggior fiducia ai ragazzi, ascoltarli. Ci vuole lavoro, tanto».
A proposito di lavoro, che cosa rimane della stagione di Mani Pulite?
«Non rimane niente, restano tante informazioni e, a volerla leggere correttamente, la prova provata, secondo me scientifica, che non è attraverso un processo penale che si risolvono le questioni di devianza capillare, articolata e diffusa come è, e resta, la corruzione in Italia».
Ma si risolvono attraverso un percorso di educazione e cultura che comincia in famiglia…
«Esattamente. E qua torniamo al discorso principale».
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