LA RICORRENZA
Il Vate della porta accanto
Trent’anni fa moriva Piero Chiara. L’Archivio del grande scrittore luinese si trova in una stanza di Villa Mirabello, dove è stata trasportata la sua scrivania
Se Piero Chiara fosse ancora seduto a un tavolo del caffè Zamberletti, pronto a trafiggere le figure bertoldesche della provincia più profonda con la spada della garbata ironia, sorriderebbe di gusto leggendo che adesso lo amano anche i critici che non gli perdonarono in vita il vastissimo successo popolare. Lo accostano al fenomeno Camilleri e pare una bestemmia leggendo ciò che Leonardo Sciascia, in un carteggio conservato ai Musei civici di Villa Mirabello, pensava di un luinese, figlio di siciliano: «Egli era legato all’isola da ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza e per questo, soltanto per questo, volle rivedere luoghi e persone conosciute. Ma in quegli ambienti egli non si riconobbe e non si ritrovò. Colse l’occasione, in quel viaggio di cui scrisse, per farla finita con le memorie. Non sentì né afflato ancestrale né vampate di consanguineità. Mandò a picco i ricordi senza remore e senza rimpianti».
Dicono anche, di Chiara, che nessuno come lui ha narrato il costume italiano del secondo ‘900. Osservano che sì, s’è fatto usare dal cinema non sempre onesto nella trasposizione delle sue novelle, ma che la sua prosa lontana dalla letteratura dominante, il suo costruire trame usando i materiali poco nobili dell’erotismo, del pettegolezzo, del frasario da osteria, per giunta frequentata da contrabbandieri e giocatori d’azzardo, tutto ciò, insomma, ha spalancato a Piero Chiara le porte del famedio dei romanzieri. Ma non dicono ancora tutto, i critici di oggi, ed è quello su cui si mediterà nel trentennale della sua scomparsa del scrittore.
Quel giorno, il 31 dicembre del 1986, le vetrate larghe della sua casa all’ultimo piano di un condominio di via Metastasio a Varese, si specchiava tutta la catena alpina fino a scoprire, laggiù, il dente aguzzo del Monviso. Alle cinque del pomeriggio il grande novelliere chiuse gli occhi dopo un rantolo supremo e il piatto della sua arte pianse per sempre. Aveva lavorato sodo fino a tre mesi prima, presentando a Cortina “Il capostazione di Casalino” e partecipando a Venezia alla finale del “Campiello.” Si era prestato - ci perdonerete l’orgoglio - a scrivere la prefazione di una biografia del suo grande amico Felice Rusconi, il “magutt” diventato re del cemento, firmata da chi scrive queste note. Poi la resa progressiva al tumore.
La notizia ci colse impreparati: è morto Piero Chiara. Sapevamo che era malato da tempo, che ogni ora la metastasi ai polmoni gli toglieva un microgrammo di respiro. Ma era l’ultimo giorno dell’anno: chiuse le redazioni dei giornali, ferme le attività quotidiane, in vacanza amici dello scrittore e testimoni della sua entusiasmante carriera. Chi era rimasto in città si precipitò tra le scrivanie deserte della Prealpina, dopo aver chiesto al custode di aprire i cancelli sbarrati per il dì di festa. Chi era in montagna, si tolse gli sci e tornò subito alla base. Ciascuno di noi si sentì come investito della missione di mettere insieme contenuti che dovevano essere originali trattandosi di un illustre personaggio della porta accanto.
Il risultato furono quattro-cinque pagine che non sarebbero uscite il giorno dopo, ma il due gennaio 1987, alla riapertura delle edicole. Nessuno diede ordini. Chi avrebbe potuto, lasciò fare.
Si fidava di gente che era “sul pezzo”. In prima pubblicammo una grande foto del maestro che faceva il gesto di calarsi sul capo una lobbia nera sistemandola a metà della fronte, sopra gli occhiali da presbite. E nel titolo principale la scomparsa del maestro venne annunciata con una parola antica riservata agli uomini ai quali si vuole riconoscere un carattere sacro. quasi sacerdotale: se n’é andato il Vate. Sì, il Vate, cioè l’indovino, il profeta, il poeta eccelso, il cantore dotato di ispirazione civile.
Non c’era Internet, nessuno poteva immaginare l’avvento dei social. Le telescriventi batterono pochi cenni di cronaca e poco dopo il curriculum che dava l’elenco delle opere più importanti di Chiara, dei film che da essi erano stati tratti con i nomi degli attori che li avevano interpretati: Ornella Muti, Ugo Tognazzi, Johnny Dorelli, Carole Bouquet, Nanni Svampa.
Ci ricordammo di Giovanni Spadolini, il direttore che aveva scoperto il Chiara elzevirista, quando non era ancora sulla prima poltrona del Corriere, ma su quella del Resto del Carlino. Lo trovammo a Pian dei Giullari, nella casa di famiglia, e recandogli l’annuncio del lutto, scorgemmo nella voce del grande intellettuale allora ministro della Difesa, i segni di un dolore profondo. Ci pregò di richiamarlo perché potesse rintracciare nella sua immensa biblioteca un libro di cui conservava un affettuoso ricordo. Lo trovò, quel volume, dal titolo “Con la faccia per terra e altre storie“, pubblicato da Chiara nel 1965, e al telefono ci lesse la dedica: “A Giovanni con immutabile devozione.” Poi Spadolini raccontò che era stato Marino Moretti, collaboratore delle pagine culturali del Carlino, a segnalargli il nome di un narratore varesino pressocché sconosciuto allora. Egli ne fu entusiasta. Al punto che, passato a guidare il Corriere, nel 1968, gli offrì di scrivere sulla terza pagina più prestigiosa d’Italia. Da quel momento, superate alcune difficoltà dovute al contratto che legava Chiara alla casa editrice Mondadori, la collaborazione con la corazzata di via Solferino divenne puntuale. Un elzeviro al mese fino al 1972 quando il rapporto di lavoro si interruppe, non l’amicizia - ci spiegò Spadolini - «...che mi legava a un personaggio impegnato a ridare vigore ai principi di una democrazia laica».
Che cosa è cambiato in trent’anni, a proposito dell’opera di Piero Chiara? Quasi tutto. Lo si evince dai due Meridiani a lui dedicati da Mondadori, uno per i Racconti, l’altro per il Romanzi, entrambi curati da Mauro Novelli. E’ stato scoperto il più grande studioso di Casanova, il biografo di Gabriele D’Annunzio, l’intellettuale che dalla sua Varese intratteneva rapporti epistolari con in più bei nomi della cultura negli anni ‘50 e ‘60. Questo giacimento di diecimila lettere è fonte straordinaria per esplorare un’epoca.
L’Archivio Chiara si trova a Varese in una stanza di Villa Mirabello dove è stata trasportata la scrivania del maestro. Ne è conservatrice Serena Contini che in un libro uscito per Alberti nel 2006 – “Il cammino degli anni e delle lettere”- ha radunato i carteggi delle corrispondenze dello scrittore di Luino con Leonardo Sciascia, Giovanni Spadolini, Giovanni Comisso, Marino Moretti, Roberto Gervaso, Carlo Sgorlon, Davide Lajolo.
Ma è stato scoperta e valorizzata, specialmente dal 2004 a oggi, anche l’attività di Chiara traduttore, ad esempio di un grande poeta spagnolo del ‘600, Luis de Gongora. Ed è stata idea editoriale ottima, infine, ripubblicare nei mesi scorsi la ricercata antologia “Quarta Generazione” della quale Piero Chiara e Luciano Erba erano i punti di riferimento letterari. Ci scriveva la meglio gioventù dei poeti d’allora, Pier Paolo Pasolini, Alda Merini, Andrea Zanzotto, Paolo Volponi, Bartolo Cattafi, Maria Luisa Spaziani, Gian Piero Bona; la stampava Bruno Conti, un edicolante che di giorno vendeva giornali in via Magenta, di notte si dedicava alla cura dell’anima tra il piombo della sua tipografia.
Pensate: tutto ciò accadeva negli anni ‘50 e seguenti sotto la pelle di una città accusata di non saper fare cultura, ma solo danée. Quanta ironia sul profilo grifagno dei suoi bottegai e su quella ciotola, metafora di avidità, ch’essi tenevano in bella vista posata sul bancone di vendita. E quanta miopia nel celebrare solo un’oligarchia di abili produttori di scarpe, trascurando, non per cattiveria, caso mai per minimalismo, un’aristocrazia di fantasiosi affabulatori e illuminati poeti. Bene, cari varesini, serva il trentennale della morte di Piero Chiara ad autocommiserarci di meno.
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