BALLATA DI UOMINI E CANI
Marco Paolini racconta Jack London
Racconta storie Marco Paolini. Sa cosa vuole da lui il pubblico ma non cade nella trappola, non smette di vagabondare libero tra i suoi interessi nonostante l’ondata del successo di alcuni suoi lavori: il Vajont, Ustica, il teatro civile… Va bene, ma adesso tocca a Jack London. «Ballata di uomini e cani», il suo nuovo spettacolo che a Varese apre la rassegna «Gocce», rivisita tre racconti dello scrittore statunitense vissuto a cavallo tra Otto e Novecento e famoso per «Zanna bianca» e «Il richiamo della foresta», considerati classici della letteratura per ragazzi. «Macchia», «Bastardo» e «Preparare un fuoco» sono interpretati a suo modo da Paolini, con le musiche eseguite da Lorenzo Monguzzi e Angelo Baselli, la partecipazione di Roberto Abbiati, e la chiave di volta dello spettacolo a sorpresa nel brevissimo atto finale.
Paolini, perché Jack London?
«Per ringraziare e rimettere in circolo un autore ingiustamente classificato come scrittore per ragazzi. La mia è stata una scoperta adulta: Davide Sapienza, che ha fatto per Feltrinelli le ultime traduzioni dei grandi romanzi di London, mi ha fatto apprezzare alcune storie che mal tradotte non avevano fascino e invece, ritrovando quella scrittura rozza, genuina e entusiasmante di London, oggi parlano al cuore a alla testa».
Le sue sono ballate: che cosa significa?
«Io mi prendo la responsabilità di trasformare la pagina scritta in un suono e in un ritmo, non leggo o dico a memoria Jack London. Ho scelto la ballata con un riferimento alla tradizione americana, che affidava alla musica il racconto delle storie, ma anche al melodramma. Ho cercato l’epica di London nell’immaginario della frontiera del western americano, ma ho pensato anche a che cosa succedeva da noi quando London viveva. E visto che il poeta Walt Whitman nel suo Foglie d’erbaracconta che le bande americane suonano Donizetti, Rossini e Verdi, io sono partito anche da quelle musiche».
E i cani cosa c’entrano?
«I cani in London sono personaggi come in Shakespeare: sono potenti antagonisti dei protagonisti maschili e a volte gli rubano la scena».
Cosa lega i tre racconti di Jack London alla ballata finale del ragazzino afgano?
«La ballata finale, brevissima, racconta di un altro tipo di vagabondo, un clandestino. London ha viaggiato come abusivo sui treni, la sua vita è avventurosa come quella dei suoi personaggi. Mi sono chiesto se oggi oltre alla cruda evidenza della cronaca non ci fosse un altro modo di raccontare ciò che accade intorno a noi e ho trovato delle corrispondenze tra il tempo di London e il nostro con la storia di Zaher Rezai, che arriva solo in finale, quando le ballate di London sono finite».
Lei spesso usa nei suoi spettacoli una sorta di grammelot veneto: anche qui?
«No. Qui lo uso solo per pochissime parole idiomatiche: la scrittura di London è sporca, piena di slang dei cercatori d’oro, dei marinai, delle classi basse che non ha mai smesso di guardare con passione. Io caratterizzo alcuni personaggi con una sfumatura di dialetto».
Lei è considerato il massimo rappresentante in Italia del teatro di narrazione e del teatro civile: è una bella responsabilità?
«Questa è l’etichetta che va bene a chi scrive come lei o a chi guarda ma non per chi fa. Io non posso identificarmi in quella cosa perché sarebbe pericoloso prendere una specializzazione, significa invecchiarci e poi morirci dentro. Per me ogni spettacolo è una storia a sé. Per esempio questo non si presenta come un’orazione civile ma come un racconto di avventure. E questo lo faccio non per sfuggire a una responsabilità ma per evitare una delega che spesso questo paese dà».
E che cosa si aspetta secondo lei il pubblico da Paolini?
«L’orazione civile, appunto. E poi che io sia la eco della memoria eccetera. Da giovane va bene, non si mette in discussione la buona fede, ma da anziano questo diventa imbarazzante: chi ha una certa età tende a usare la memoria come un discrimine, con nostalgia. Io sono allergico a questo, ultimamente non ho più fatto spettacoli sulla memoria. È vero che ce n’è bisogno ma vedo che lo fanno altri. Non ho fatto spettacoli sulla grande guerra, non colgo gli anniversari che incombono, in generale sono allergico al calendario dei santi laici».
Cosa rappresenta nella sua storia teatrale «Il racconto del Vajont»?
«Rappresenta un salto di responsabilità, perché proprio da quel momento è scattata la delega del pubblico. Ma il teatro non può essere sostituivo di altre forme di giustizia, conoscenza e memoria. Il ruolo del teatro è quello di porre domande, non di diventare la scorciatoia per trovare le risposte. Noi siamo un paese che è in cerca di risposte ma non ci interessa la trama, non ci interessa come è andata: vorremmo la risposta definita».
E invece?
«Il senso della storia come maestra di vita è quello di comprendere come evitare di ripetere gli errori e per fare ciò la trama, i passaggi, i dettagli sono essenziali. In questo senso il modo di procedere della scienza è interessante, brechtiano senza l’accezione ideologica di Bertolt Brecht, quel tipo di ragionamento sull’uso del teatro a me interessa molto, lo straniamento, il gioco dell’emozione mescolata con il ragionamento».
I suoi temi spaziano, oltre agli spettacoli già citati bisogna ricordare almeno lo spettacolo su Galileo e il lavoro su Ustica: come sceglie? Da cosa si fa sedurre?
«Ogni volta è diverso, leggo molto e le cose finiscono nelle cartelline: alcune hanno un seguito, altre si accumulano e restano lì come delle tentazioni, non diventeranno mai uno spettacolo. Il mio è un mestiere fantastico che mi permette di studiare perdendomi quanto voglio dentro un argomento per poi lasciarlo sedimentare fino a che non diventerà uno spettacolo, forse. È la fase che preferisco del processo creativo».
Come si informa sull’attualità politica: giornali, televisione, social?
«Non amo i social. Per me la televisione è un riempitivo dei momenti di insonnia, faccio il maledetto zapping cercando un film o un documentario. L’informazione la seguo quotidianamente in tv e sui giornali».
Lei non ha fatto accademie di teatro ma avrebbe tanto da insegnare: chi sono i suoi maestri?
«Sento come maestro Grotowski e anche Eugenio Barba, negli anni Settanta, gli anni del Terzo Teatro. La lezione di Dario Fo è fondante ma è un modello così ingombrante che non si poteva copiare. Reputo un altro grande maestro Paolo Poli: un esempio di eleganza, cultura e raffinatezza. Io non insegno».
Perché fa sempre monologhi?
«Il monologo non mi piace, evoca la quarta parete, io invece racconto guardando il pubblico negli occhi. E poi non è vero che sono solo in scena: a volte ci sono altri attori e poi c’è la musica, che ha quasi sempre un ruolo comprimario. Da aprile sarò in tournée con Gabriele Vacis e un gruppo di attori palestinesi. Non ho un solipsismo di vocazione: sento il bisogno di confrontarmi con altri».
Luigi Meneghello è un autore che torna nella sua storia teatrale, a partire da «Libera nos a malo».
«Meneghello mi fa molta compagnia sempre, era un vero amico per me e la sua lezione non mi abbandona, come quella di Rodari e di Calvino: sono strumenti costanti del mio lavoro. Meneghello mi diceva sempre: ma tu scrivi troppo, ma tu fai troppe cose, caro, ma sei sicuro che fai uno spettacolo nuovo anche quest’anno? Aspetta un altro anno… La parsimonia di Meneghello mi batte come un chiodo in testa quando il ritmo della stagione incombe, quando c’è la necessità di rispettare i calendari teatrali e proporre cose nuove... ma sei sicuro? Questa è la lezione di Meneghello: estrema parsimonia nella valutazione di sé come artista e nella valutazione delle cose da dire».
La neve e la montagna, il grande nord, il freddo, penso al «Sergente» di Rigoni Stern: che cosa significano per lei?
«Questo spettacolo è tutto bianco, montagna di nuovo. Gli amici dicono: quando fai uno spettacolo sulla Polinesia? Non se ne può più che tu parli sempre di freddo e di neve. Io non me ne rendo nemmeno più conto, deve essere qualcosa che prescinde da me, però è vero».
Cosa farà il 5 marzo, quando compirà 60 anni?
«Sicuramente sarò in tournée e festeggerò in teatro, come sempre: non è un anno particolare. E poi con la nuova legge non vado subito in pensione, aspetto un po’ anch’io».
«Ballata di uomini e cani» - Venerdì 29 e sabato 30 gennaio a Varese, teatro Ucc, piazza Repubblica, ore 21, 30/15 euro; lo spettacolo apre la rassegna Gocce che prosegue poi al teatro Nuovo di viale dei Mille con altre sette date; info 334.2692612.
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