DELITTO FARACI
Melina: «Non ho ucciso mio marito»
Tra un mese la decisione sul rinvio a giudizio della donna, difesa dall’avvocato Pierpaolo Cassarà
«Io mi ricordo di aver trovato il cancelletto di casa aperto. Sono entrata, c’erano tutte le carte buttate per terra. Chiamavo Antonino, lui non mi rispondeva. Alla fine l’ho visto nell’angolo vicino al divano: mi sono buttata su di lui, cercavo di aprirgli la bocca. Lui non rispondeva. Ricordo che sono corsa a chiamare un vicino, poi più niente. Non ho capito più niente, e adesso cinque anni dopo mi ritrovo qui accusata di averlo ammazzato. Dicono che ho fatto cose terribili, ma non è vero niente. Io so di essere innocente, spero che il giudice capisca che ho detto la verità».
Melina Aita frena a stento le lacrime mentre ricorda quello che accadde nella villa di via Briante il 12 aprile 2014, quando suo marito Antonino Faraci, 72 anni, fu ucciso. Al termine dell’inchiesta coordinata dal pm Rosaria Stagnaro furono indagati per omicidio la stessa Aita e due tunisini, Bechir Baghouli e Slaheddine Ben’H Mida. I due stranieri riuscirono a sottrarsi all’ordine di cattura fuggendo all’estero, oggi alla sbarra c’è quindi solo la moglie della vittima, 68 anni, che mercoledì, assistita dall’avvocato Pierpaolo Cassarà, si è presentata al Tribunale di Busto Arsizio per l’udienza preliminare davanti al giudice Luisa Bovitutti. Cassarà è convintissimo dell’innocenza della sua assistita, e ha sollevato tutti i dubbi possibili sulla ricostruzione dell’accusa: «Hanno detto che era drogata - ha detto - ma l’incidente probatorio ha provato che la signora non ha mai assunto cocaina. Hanno detto che il movente poteva essere passionale, ma la mia assistita conosceva solo uno dei due tunisini, che era stato fidanzato della nipote. La mia cliente è accusata di aver aperto la porta agli assassini e di aver inscenato una rapina, ma in fase istruttoria sono stati commessi molti errori. Sono fiducioso, proprio per questo non abbiamo chiesto alcun rito alternativo. Affronteremo il dibattimento in aula, dimostrando l’innocenza della signora».
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