IL SALUTO
Paul, l’ultima partita nel “suo” palazzetto
Duemila persone, in un PalA2A commosso, hanno ricordato il diciottenne scomparso domenica 19: con standing ovation finale
«Chiunque alleni lassù, aveva proprio bisogno di uno scarso come te».
La risata liberatoria, quella che lo stesso Paul avrebbe innescato davanti a tanta tristezza composta sugli spalti del “suo” Palazzetto, l’ha regalata il ricordo d’un suo coach, Giacomo SpinoFornaroli, raccontato a voce alta da uno dei ragazzi del Basket Bosto, Alessandro Micalizzi.
Lo stesso giovane che ha concluso il suo commovente “ricordo di squadra”, regalando al suo ex compagno la standing ovation dei duemila d’ogni età, assiepati tra parterre e tribune del Pala2A. Tutti lì per salutare Paolo Paul Talamoni, il diciottenne che domenica 19 febbraio ha lasciato il vuoto dietro sé, andandosene per colpa d’un tumore al cervello, e per stringersi ai suoi genitori, Giuseppe e Daniela, ai suoi fratelli, Davide, Elisa e Valentina, e alla sua ragazza, Giulia.
Varese ha salutato così un ragazzo come tanti, eppure unico nella sua contagiosa capacità di amare la vita, di cadere e rialzarsi finché ha potuto, d’insegnare coraggio ai suoi coetanei e agli adulti che gli sono stati vicini in questi ultimi dieci mesi della sua densa vita.
Paul non era un ragazzo modello, di quelli che piacciono alla Varese agghindata d’ori e poco altro che la domenica si rifà il trucco per sfilare al palazzetto o in altri meno ruspanti salotti. Paul era l’esatto opposto dell’adepto al mantra del “si deve”, senza capire perché si debba.
Paul ha sempre pagato questa sua avversità all’omologazione in nome della ricerca della verità ma ha avuto la fortuna – e che fortuna – di nascere e crescere in una famiglia genuina. Laddove la parola amore ha fatto sì che un padre, al cospetto del feretro del figlio, alla fine lo ringraziasse per la sua lezione di vita. Capovolgendo i ruoli. Riconoscendo nel coraggio del figlio il segno di un esempio che va oltre lo stereotipo della genitorialità.
Un atto d’umiltà assai applaudito, quello di Giuseppe, che spiega la grandezza del vuoto che toccherà riempire senza poter contare sui cliché cari a questa terra, la cui unica, profonda identità – guarda caso – ruota attorno a una palla a spicchi. Quella che Giovanni Borghi prese in mano per lanciarla nell’orbita della leggenda. Quella che Daniele Cavaliero, capitano della Pallacanestro Varese di oggi e Max Ferraiuolo, team manager ed emblema della società, hanno regalato un paio di giorni prima che Paul spiccasse l’ultimo balzo, celebrando il suo coraggio. La qualità che è alla base di ogni impresa leggendaria.
È stato strano, il primo pomeriggio di oggi, martedì 21 febbraio, entrare nel tempio dedicato a questa leggenda e trovarlo, per la prima volta, gremito a metà dinanzi a una bara, sotto la foto d’un giovane dal volto docile e dallo sguardo che pare una domanda senza fine.
Per poco meno di un’ora, duemila persone hanno assistito all’ultima partita di Paul: sul parquet, come in uno specchio condiviso, si sono affollati ricordi, emozioni, suggestioni, punti di vista sul mistero più grande. L’immobilità del feretro, equidistante da quei due poli del campo che sono lo scopo del gioco della pallacanestro, raffinata allegoria della vita, è stata solo apparente.
Da una parte all’altra di quel rettangolo è stato infatti un susseguirsi invisibile di canestri, terzi tempi, schiacciate, stoppate, ultimi e primi tiri, ferri, imprecazioni, frusciar di retina, high five, scricchiolii di gomma sul legno lucido, trilli di fischietto, irreversibili sirene. E applausi. Applausi durati due, forse tre minuti, per uno spirito indomabile che sì, come cestista forse non è stato il massimo visto a queste latitudini. Ma che come assistant coach, s’è già dimostrato tra i migliori che quello lassù avrebbe mai potuto pensare d’avere accanto.
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