8 MARZO
Settant’anni fa il primo voto femminile: ne parla la varesina Gisa Legatti, insegnante e attivista
Quest’anno l’8 marzo, la Festa della donna, ha un sapore particolare. Dopodomani, mercoledì 10, ricorre infatti un anniversario importante: sono esattamente 70 anni che le italiane possono votare. Una conquista arrivata dopo anni di battaglie e molto più tardi rispetto ad altri Paesi. Una conquista recente, insomma, di cui oggi, purtroppo, molte di noi non apprezzano il reale valore. Dell’anniversario e del suffragio femminile abbiamo voluto parlare con Gisa Legatti, una signora che a Varese è un punto di riferimento, sia per il suo essere attivista, sempre dalla parte degli ultimi, sia per il mestiere che ha svolto (e che in un certo modo continua a svolgere), quello di insegnante.
Gisa Legatti, il 10 marzo 1946 sono 70 anni che le donne italiane possono votare. Quale riflessione le suggerisce l’anniversario?
«Io nel 1946 avevo 10 anni, quindi i miei ricordi sono quelli di una bimba che stava cominciando a uscire dagli incubi e dalle paure della guerra appena finita, del conflitto tra fascisti e antifascisti. Il voto però coinvolgeva mia mamma, mia sorella maggiore e altre amiche della cerchia, quindi in qualche modo era una cosa a me vicina. Ricordo che il loro sentimento era di giusto riconoscimento perché, perbacco, la guerra non era stata sofferta solo da uomini e militari, ma anche dalle donne».
Quindi non tanto come una vittoria pre-femminista.
«No, più come un riconoscere la forza e la dignità le donne che durante gli anni della guerra avevano davvero preso in mano la società, si erano date da fare per sopravvivere, lavorare, proteggere le famiglie. Quindi la possibilità di votare era qualcosa di estremamente profondo, che toccava la guerra e la pace e le donne che avevano partecipato a costruire la pace».
Chissà che trepidazione nell’andare al seggio...
«Io ricordo che le donne tentavano di vivere questa nuova esperienza in modo del tutto normale. Certo, chi aveva combattuto come partigiana aveva una spinta in più, però il diritto al voto era sentito come un riconoscimento. E non era poco, per i tempi».
Poi c’era il fatto della scelta, il senso di responsabilità.
«In quegli anni si votava a 21 anni e chi andava al voto per la prima volta si sentiva messo di fronte a una scelta grossa, che diventava subito di parte, ideologica. Consideriamo che l’influenza della chiesa era forte e il detto Dio ti vede, Stalin no, intendendo nelle cabine elettorali, era preso molto sul serio. Senza contare la Madonna Pellegrina, la statua che padre Lombardi portò in giro per le parrocchie italiane anche per influenzare il voto. Insomma, allora il senso della scelta era forte anche perché dietro c’era un forte scontro ideologico che chiamava in causa condizioni di vita e costumi che solo la parte più matura degli italiani non voleva fossero mescolate con la scelta politica. Erano gli anni in cui da Firenze il prevosto denunciava per adulterio, dal pulpito, la ragazza che conviveva senza essere sposata. Insomma, il voto alle donne si arricchiva di tante sfumature e di problemi, perché in qualche modo andava a toccare anche la sfera intima delle persone».
Che cosa ricorda della prima volta che andò a votare?
«Mah, non molto… Dovevano essere gli anni Cinquanta, normali elezioni politiche. C’era questa chiamata alla collaborazione dei giovani e c’erano donne che presentavano le liste che potevano essere socialista, comunista o democristiana… Soprattutto ricordo la paura dei democristiani: temevano che i comunisti facessero brogli nei seggi, dicevano che qualcuno, con una mina di matita nascosta sotto le unghie, avrebbero potuto invalidare le schede… Queste dinamiche, questa diffidenza assoluta erano tipiche dei paesi - e io le conosco perché allora vivevo a Malnate -, ma bisogna anche capirle. In fondo erano le prime volte che si prendeva in mano la democrazia. L’atmosfera, comunque, era di grande partecipazione e di responsabilità».
A proposito di grande partecipazione, che cosa si sente di dire alle ragazze che invece si tengono lontane anni luce dalla politica e dal voto?
«Ragazze ribellatevi perché siete le vittime di una cultura terrificante. A parte il crescere di giudizi al ribasso nei confronti degli altri, slogan di insulti che si possono leggere anche sui muri della città, le giovani generazioni sono state fregate da anni di esibizione costante ed esagerata della femminilità. Una femminilità che non c’entra con la bellezza, l’intelligenza, l’eleganza, ma punta solo tutto su trucco, vestiti, abiti e scarpe. Sembra paradossale, ma l’esasperazione del femminismo è stata la vittoria più grande del maschilismo».
Diciamo che queste nostre giovani ragazze sono anche un po’ vittime.
«Sì, a volte le guardo e penso: e dai, tiratevi un po’ fuori, fate vedere chi siete… Ma poi mi rendo conto che loro sono nate in un mondo complicato in cui sono importanti problematiche superficiali. Adesso, non per fare il solito discorso, ma quando eravamo giovani noi c’erano scelte da compiere. Chi sceglieva la Dc, chi cantava Bandiera Rossa… Non ci siamo tirati indietro quando bisognava assumersi delle responsabilità».
L’assunzione di responsabilità, è questa che manca?
«Io penso di sì. Adesso su cosa maturi, quali scelte devi compiere, come ti butti nel mondo? Quello che fa dispiacere in senso politico è che tutto debba essere riconquistato dalla base, perché in fondo lotte e ideali, diritti acquisiti, sono stati messi in discussione da un modo di fare politica terrificante, che ha una grande colpa: aver fiaccato i giovani».
C’è una cosa che lei, da vera attivista, dice a proposito del G8 di Genova e del Papa...
«Beh, quel che è successo a Genova è esemplare. Chi gridava no al capitale, no al profitto, no alla globalizzazione delle merci veniva considerato e trattato come un pericoloso terrorista. Oggi gli stessi concetti tornano nel pensiero di questo Papa meraviglioso che abbiamo e che di nuovo parla al mondo dei valori per cui si combatteva ben prima del G8. Allora quelle idee di lotta progressista non erano sbagliate, avevano, anzi, avevamo ragione! Ma vaglielo a dire tu ai giovani di oggi. Certo con le idee confuse che hanno non si sentono autorizzati a chiedere risarcimenti per un mondo che non funziona».
Lei ha sempre un pensiero speciale per i ragazzi.
«Sì, perché ho insegnato per tanti anni e ancora lo faccio. Sono stata assistente universitaria alla Cattolica di Milano, poi ho insegnato italiano e storia alla Dante di Varese, a Ragioneria e infine all’Itis, dove ero impegnata anche nel serale con gli operai delle 150 ore. A un certo punto ho cominciato anche a insegnare italiano agli stranieri, prima all’Università popolare, poi in via Rainoldi e infine nella sala Macchi della Coopuf. Ancora adesso mi sento felice quando mi chiamano per fare italiano con i ragazzi che arrivano da Lampedusa, o dagli altri confini, come li chiamano. Non poter essere là dove l’umanità approda mi pesa molto, ma così mi sento utile lo stesso, onorata».
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