IL SOLD OUT
The Cure, basta la parola
Ritorna in Italia la band di Robert Smith: doppio appuntamento al Forum
Se non esistessero, bisognerebbe inventarli. Cupi e solari al tempo stesso, dark e melodici, rock e pop. La grandezza dei Cure sta nella loro versatilità, pur restando sempre se stessi. Mettete a confronto Siamese Twins e Friday I’m in Love, oppure Hanging Garden con Close to Me e chiedetevi: cosa c’entrano tra loro?
In apparenza nulla, in verità tutto perché il timbro di Robert Smith si sente in ogni piega di canzoni che fanno parte di quei trentasette anni di carriera di una delle band più longeve nella tormentata storia del rock mondiale.
Il suo imprinting è come il sangue nelle vene di un corpo - i Cure - che nulla sono se non una semplice propagazione del suo genio, della sua banale ma straordinaria inventiva. Chi li conosce dai tempi di Three Imaginary Boys rimane ancora sconvolto e rapito quando si sentono le prime note di Plainsong che si propagano nell’aria.
E’ successo all’ultimo concerto italiano del gruppo, in una caldissima area fiera di Rho nell’ambito dell’Heineken Jammin’ Festival del 7 luglio 2012.
Sono già passati quattro anni (e tre mesi) ma è finalmente arrivato il momento del ritorno. Sabato 29 ottobre il tour partito il 10 maggio da New Orleans passa dall’Italia con quattro date da tutto esaurito (a parte Bologna). Primo appuntamento alla Unipol Arena di Casalecchio di Reno, poi Palalottomatica a Roma il 30. Infine due date milanesi sold out da mesi al Mediolanum Forum di Assago, il primo e il 2 novembre.
Si pente chi non ha comprato il biglietto, si butta sul web alla caccia disperata di un tagliando che non trova. Ma Robert (classe 1959) non è tipo da stadio di San Siro. Di soldi ne ha fatti abbastanza con la musica (e ne ha pure buttati), tanto da scegliere ormai solo quello che vuole. Ovvero tre ore (almeno) di concerto davanti ai suoi fans che cominciano ad essere un po’ in là negli anni.
Ma sbaglia chi pensa che dai Cure vada solo il popolo dark, tanto in voga negli Anni Ottanta. Quelli da spolverino nero, cresta e colorito pallido. La grandezza di questa band sta nell’intercettare un consenso diffuso, non catalogabile e nemmeno imbrigliabile sotto sigle o, peggio ancora, schiavo delle mode.
Robert è l’esatto contrario di ciò che dovrebbe fare tendenza. Ed è meglio così. Dopo aver frequentato alcuni tra i festival europei più importanti arriva in Italia con una line up che richiama la storia e le origini del gruppo con il fido Simon Gallup al basso affiancato da Roger O’Donnel alle tastiere. Poi c’è la sua chitarra onirica e svagata, oltre a quella di Reeves Gabrels nell’impianto ritmico creato dal batterista Jason Cooper.
Scaletta con i classicismi a partire dal brano di apertura che non poteva che essere Open. Poi via con il resto dei brani più famosi (dovrebbero mancare, però, Close to me e Boys don’t cry), due inediti (Step into the light e It can never be the Same) e super bis con Play for Today e A Forest, giusto per citarne un paio. Ma non sono esclusi cambi in corsa perché Robert spesso stupisce i suoi stessi compagni sul palco, prima ancora che il pubblico. Dal 1979 ad oggi.
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