IL CONCERTO
The Cure, leggenda in movimento
Sul palco del Forum pezzi d’antàn e pubblico sempre caldo: Robert Smith continua a incantare
Che cosa preferite?
Il muro sonoro di Primary o la dolcezza di Lullaby?
Il quasi metal di Fascination Street o la disco di The Walk?
C’è tutto nel concerto dei Cure al Forum di Assago: due ore e quaranta minuti i musica come non si sentiva da quattro anni e più, dall’ultima apparizione della band in Italia, all’Heineken Jammin’ Festival in fiera a Rho.
Si può dire tutto e il suo contrario sul gruppo di Robert Smith ma non si può non amarlo dopo quasi quarant’anni di carriera e una straordinaria semplicità nel raccontare la claustrofobia dell’uomo contemporaneo, di quello straniero che uccide un arabo (come scriveva Camus e come i Cure hanno messo in musica in Killing an Arab), del non senso del vivere e del soffrire che non rimane fine a se stesso ma si trasforma - quasi per miracolo - in sete di vita, in voglia di esistere. In una parola: in felicità allo stato puro.
Come non definire così le sensazioni che si provano di fronte ai colori e alle note di Friday I’m in Love. Sembra una canzonetta pop, eppure è il riassunto di una filosofia: la risposta solare ai tetri suoni del periodo Faith-Pornography.
È storia della musica ormai.
Quello che stupisce, allora, è l’attualità di certe ballate, di canzoni che sono fatte quasi in forma di spirale, così come il video che viene mostrato nel primo video sul palco ad accompagnare l’apertura del concerto con, non a caso, la canzone Open.
Tra i cerchi di Vertigo (che richiamano il miglior Alfred Hitchock) le sonorità trasportano la mente verso qualcosa che scappa dal raziocinio e vola verso ciò che si ritrova in altre canzoni così ripetitive da sembrare ancora più belle nella loro ossessione: Picture of You, oppure From the Edge of the Deep Green Sea. O il classicissimo A Forest.
Le vette, però, si toccano con Charlotte Sometimes, canzone che ha una storia particolare perché uscita in album solo nella raccolta del 1986 Standing on a Beach ma riesce a mettere insieme la capacità melodica della band con le sonorità più dark. Operazione riuscita in pieno per Robert Smith, molto più di un semplice leader della band.
I Cure sono Robert. E lui gigioneggia sul palco come forse mai si era visto in Italia.
Accenna qualche ballo, dice “Pronto” quando compare la cornetta del telefono sul video di Wrong Number e conclude il concerto mostrandosi al pubblico senza la solita chitarra (che è una difesa) davanti al suo corpo e con un sorridente “Grazie mille”.
Sembra poco per chi è abituato ai mostri sacri del rock in concerto, ma è moltissimo da una rockstar (darkstar?) che in precedenti occasioni faceva fatica ad alzare gli occhi dal microfono.
Ma il look resta sempre lo stesso: capelli laccati, rossetto rosso vivo sulle labbra e cerone bianco.
Neri i vestiti mentre Simon Gallup, il fedelissimo bassista, mostra un’improbabile maglietta degli Iron Maiden mentre fa su e giù sul palco, gobbo, capigliatura da rockabilly, con il basso sulle ginocchia. Roger O’Donnel, invece, ammicca verso il pubblico mentre suona le tastiere con caschetto ramato che sembra quasi un Beatles dei tempi d’oro.
Insomma, tutto fanno i Cure per stare lontani da mode e cliché, si vestono come vogliono e suonano come pare a loro.
Difficile essere spontanei dopo una carriera monumentale come la loro, eppure ci riescono e il pubblico apprezza.
La gran parte supera i quarant’anni, ha lasciato i figli a casa alla baby sitter e torna indietro a quando i Cure arrivarono per la prima volta al Teatro Tenda di Milano negli Anni Ottanta.
Le loro canzoni oggi suonano in maniera diversa perché è giusto che il mondo cambi, la vita si trasformi ma senza che Robert faccia una piega: stesso look a più di trent’anni di distanza, stesso chitarrone e stesse inquietudini declinate in canzone che ormai sono il patrimonio di tanti: un grande monumento pop.
© Riproduzione Riservata