TRE ANNI DOPO LA MORTE
Arcelli si poteva salvare
Davanti al giudice il medico che lo soccorse. La figlia del grande preparatore atletico: «Giustizia per mio padre»
«Mio padre aveva la possibilità di essere salvato. Se solo non lo avessero dimesso dall’ospedale di Olbia, e soprattutto se il medico si fosse accorto che nelle analisi del sangue, rifatte per la seconda volta, c’era un valore, quello della troponina, molto alto, forse oggi lui sarebbe qui con noi a festeggiare il Natale». Nelle parole della figlia Francesca, rivive il padre, il professor Enrico Arcelli, un gigante della preparazione atletica (fu uno degli artefici del record dell’ora di Francesco Moser, per esempio) e della corretta alimentazione applicata allo sport, conosciuto e stimato in tutto il mondo. Arcelli se ne andò tre anni fa a 75 anni, dopo aver accusato un malore nella sua casa di Porto Cervo, in Sardegna, il 30 giugno del 2015. Che ci fosse qualcosa di grave, e che forse non fosse stato fatto tutto il possibile per salvare il professore, che mai aveva avuto problemi di cuore, i familiari lo avevano sospettato fin da subito. Tanto che il 5 luglio, poco prima del funerale nella chiesa di Sant’Ambrogio, i figli Francesca e Marco avevano sporto denuncia contro ignoti per malasanità alla caserma dei carabinieri di Varese.
Tre anni d’indagini e di accertamenti e ora la clamorosa notizia: il 27 marzo prossimo, nel tribunale di Tempio Pausania (Porto Cervo ricade sotto la sua giurisdizione), «prenderà il via il processo davanti al gip, con il rinvio a giudizio per omicidio colposo a carico di un medico del pronto soccorso dell’ospedale di Olbia, dove il professore arrivò in ambulanza quel 30 giugno di tre anni fa», spiega il legale della famiglia Arcelli, l’avvocato varesino Andrea Macchi.
Francesca ricorda le ore drammatiche in cui il padre si sentì male, nella notte tra il 29 e il 30 giugno 2015. «Al mare nella nostra casa c’erano mio papà con la mamma, Angela. Lei si accorse che respirava in modo affannoso, un’ambulanza lo portò subito al pronto soccorso di Olbia: era incosciente, ma in ospedale si riprese - dice Francesca, che non era in Sardegna, ma “pronta a prendere il primo aereo per raggiungerlo” - I medici hanno effettuato il cardiogramma e tutte le analisi del sangue, per due volte. Nella prima il valore della troponina, che indica il rischio di infarto, era basso». Non così nella seconda. Eppure alle 12.30 del 30 giugno Arcelli venne dimesso, rientrò nella sua villa di Porto Cervo e andò a sdraiarsi, «anzi, i medici non gli proibirono neppure di prendere il traghetto per Genova, previsto per la sera», racconta la figlia. Su quella nave il professore non salì: poco dopo il rientro a casa la moglie si accorse che rantolava di nuovo. E questa volta non servì a nulla né defibrillatore né massaggio cardiaco. «Non dovevano dimetterlo: se avessero visto il secondo dato non lo avrebbero mai lasciato andare a casa - ripete Francesca - Ritirando la cartella clinica di mio padre, un amico medico notò subito l’anomalia di quel valore: da lì la nostra volontà di saperne di più». Così dopo le esequie la salma fu trasportata al Ctu di Torino per l’autopsia, su decisione del pm. Dice l’avvocato: «La relazione, firmata dall’anatomopatologo, la dottoressa Rita Celli, parla chiaro: le cause della morte sono dovute, c’è scritto, “ad arresto cardiaco per sindrome coronarica acuta, non diagnosticata, e dimissione precoce del paziente, incomprensibilmente, al momento in cui giunse il risultato del secondo controllo”». La relazione continua specificando che in questo modo «la possibilità di sopravvivenza si è ridotta dall’80 al 20 per cento, privando il paziente di maggiore assistenza rianimatoria e ospedaliera».
Un dolore nel dolore, per la famiglia. «Quasi mi auguravo il contrario», mormora tra sé e sé Francesca, ricordando quel padre allegro e pieno di vita che non doveva andarsene così.
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