IL PERSONAGGIO
Gli 80 anni della leggenda Vittori
Dagli inizi a Gorizia agli anni del Simmenthal (quattro volte tricolore) fino all’approdo nella città Giardino, dove vive da più di mezzo secolo: altri due scudetti e trofei europei e mondiali. Oggi l’impegno nel Varese femminile e nell’organizzazione del

80 anni e non sentirli, gran parte dei quali dedicati al basket, anzi alla pallacanestro, perché quella praticata da Paolo Vittori era ancora pallacanestro. 80 anni, gran parte dei quali trascorsi a Varese, dove Paolo ha scelto di vivere dal 1965.
«Da giovane ho praticato molti sport - comincia l’amarcord di Vittori - dal calcio (ho giocato con Tarcisio Burgnich ma ero un tappabuchi, non sapevo fare nulla) al ciclismo e al tiro con l’arco. Un giorno, a 15 anni, mi convincono a provare con gli juniores della Goriziana: passo in fretta in prima squadra, retrocessa in serie B e otteniamo subito la promozione in A, allora secondo campionato nazionale. Nel 1958 mi prende la Motomorini Bologna; in realtà, i suoi dirigenti erano venuti a Gorizia per vedere un mio compagno, Zollia, che aveva un problema a un ginocchio e in quell’occasione non giocò e così videro me. Io sarei rimasto a Gorizia ma la società non mi trovava un lavoro, così andai a Bologna, dove rimasi un anno, molto positivo».
Poi Milano, il Simmenthal...
«A Bologna stavo benissimo accanto a giocatori del calibro di Conti e Vianello. A fine stagione, sono al mare, leggo sulla Gazzetta che la Motomorini, all’improvviso, cessa l’attività. Mi chiama Cesare Rubini e mi chiede di parlare con Adolfo Bogoncelli, presidente del Simmenthal. Vado in treno a Rapallo, in terza classe, non mangio per ore, finalmente parlo con Bogoncelli e ceno a Portofino. A Milano trascorro sei anni bellissimi, in una società superorganizzata, in cui sono solo in due a prendere decisioni: Bogoncelli e Rubini. Tra l’altro, abbiamo a disposizione letti su misura. Al Simmenthal non ho mai preso un premio per le molte vittorie (quattro scudetti, uno dei quali nel primo spareggio a Bologna contro l’Ignis) ma il trattamento è stato sempre ai massimi livelli (parlo, ad esempio, di alberghi e ristoranti)».
Ma nel 1965 c’è il “divorzio” e l’arrivo a Varese.
«Due eventi concomitanti: l’arrivo a Varese di Alfredo Casati, ex general manager del Simmenthal, e qualche difficoltà dell’azienda di Bogoncelli, che costringe il Simmenthal a rinunciare ad almeno un pezzo pregiato. Rubini si dispera per la mia partenza, ma alla fine approdo a Varese. Il primo incontro con Giovanni Borghi (grande uomo e grande conoscitore di uomini) è inspiegabilmente segreto: arrivo in treno a Gallarate, dove trovo Augusto Ossola che mi accompagna in auto a Comerio. L’accordo è facile ma a Comerio vivo alla Casa dell’Atleta: letto piccolo, i rumori della fabbrica, mangio in mensa. Io mi adatto ma siamo in serie A... Toby Kimball, lo statunitense, vive in una roulotte con la moglie. Ma poi parlo con Borghi e tutto si risolve, anche per Kimball».
Un anno difficile, in cui lei fa anche l’allenatore, in coppia con Gavagnin dopo l’esonero di Vinicio Nesti, vincendo a Madrid la Coppa Intercontinentale, primo trofeo internazionale di Varese.
«Conoscevo bene il Real Madrid per averci giocato contro negli anni precedenti con il Simmenthal. Dovevamo limitare il suo grande contropiede e ci riuscimmo, vincendo quella coppa».
Sempre in quell’anno, il “caso Gennari” e lo scudetto sfumato...
«Già, vincemmo sul campo lo spareggio di Roma ma la vittoria ci venne poi tolta a tavolino. Gennari attendeva da mesi di poter giocare da italiano ma il nulla osta non arrivava mai. Prima dello spareggio parlai con Claudio Coccia, presidente federale, con il quale ero piuttosto in confidenza. Mi disse: “Ho ceduto alle pressioni del tuo presidente Edoardo Bulgheroni e ho firmato il nullaosta. Ma ti avverto: se Gennari scende in campo perdete la partita a tavolino”. Eravamo ampiamente in vantaggio, poi il Simmenthal rimontò parzialmente; a metà del secondo tempo Giovanni Borghi mandò il figlio Guido alla nostra panchina e disse di far entrare Gennari. Io ero in campo, Gavagnin eseguì. Sappiamo come andò a finire... Poi Gennari giocò da italiano per più di dieci anni. Per me quello scudetto l’ho vinto sul campo e infatti ne considero sette vinti».
Nel 1967 il progetto Ignis Sud e la partenza per Napoli.
«Sarei rimasto a Varese ma Tracuzzi, nel frattempo approdato sulla panchina dell’Ignis, non mi considerava molto. Io vidi a rischio la mia terza Olimpiade, Borghi mi chiese di andare a Napoli e dissi di sì. Il primo anno ci venne scippato uno scudetto che avremmo meritato e che vinse Cantù. Il secondo anno favorimmo il trionfo di Varese battendo le sue avversarie, io marcai Manuel Raga costringendolo a magri bottini (13 punti all’andata e 11 al ritorno) e lui me ne diede merito».
Poi il ritorno a Varese nel 1970 con Aza Nikolic, che stravedeva per lei dopo che in Nazionale aveva disputato grandi partite contro la Jugoslavia guidata dal Professore...
«In realtà a caldeggiare il mio ritorno a Varese era stato soprattutto Flaborea, tornato da Napoli alla Ignis l’anno prima. Per me Nikolic è stato sicuramente un grande allenatore ma a renderlo grande fu soprattutto la nostra squadra, fatta di giocatori vincenti. E poi una società che, in qualche modo, ricalcava il “modello Simmenthal”, con poca gente che prendeva le decisoni (verso Giancarlo Gualco ho sempre avuto grande stima, ricambiata, senza scordare Luigi “Cico” Cicoria, ex arbitro internazionale, che ci dava più tutele a livello europeo). Con Nikolic, appesi le scarpe al chiodo, avrei dovuto fare il viceallenatore ma Aza un giorno mi disse che avevo parlato male di lui con i giornalisti e, malgrado le smentite, non mi volle più».
Dopo una breve esperienza a Rieti non ha mai voluto allenare, se non i giovani...
«Non faceva per me. Sono contento di aver “scoperto” Zampolini e Brunamonti e di averli fatti andare a Rieti; alla Robur et Fides ho allenato, tra gli altri, Vescovi e Prina. Sembrava che Toto Bulgheroni dovesse entrare nella società, un giorno mi parlò e poteva essere l’occasione della vita ma... forse non compresi; se fu così, mi scuso con Toto».
A Varese ha regalato quella gemma che si chiama Memorial Enrico Garbosi.
«Mi occupavo di centri di minibasket, il torneo nacque a livello locale per poi espandersi in maniera esponenziale. L’idea di dedicarlo a Rico Garbosi fu di mia sorella Liliana e di Myriam Garbosi, che ne parlarono un sera a cena. L’anno prossimo ci sarà l’edizione del 40°, sogno di fare arrivare squadre dall’Australia, dall’Argentina, dal Senegal... Ma abbiamo bisogno che gli amici ci diano una mano».
Lei fa parte anche dei vertici della squadra femminile che ha appena conquistato la promozione in serie A2.
«Sì, faccio “il capo”... Scherzo, i meriti sono della presidente Linda Brautigam, dell’allenatrice Lilli Ferri e di tutti i collaboratori che formano una squadra bellissima e fortissima».
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