IL PROCESSO
Binda, parola al super-testimone
L’avvocato Vittorini al dibattimento in Appello per la morte di Lidia Macchi. Risponderà sul giallo della lettera “In morte di un’amica”.

«Sono stato avvisato dagli uffici della cancelleria già al termine dell’udienza e ho dato la mia piena disponibilità a presentarmi in aula. D’altronde, è un mio dovere».
“Stoppato” dai giudici della Corte d’Assise di Varese, l’avvocato bresciano Piergiorgio Vittorini ha già risposto “presente” alla convocazione (anche via posta elettronica certificata) della prima Corte d’Assise d’appello di Milano per quello che si preannuncia essere il momento clou della riapertura dell’istruttoria dibattimentale nell’udienza di giovedì prossimo, 18 luglio, del processo a carico di Stefano Binda, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lidia Macchi.
Accogliendo l’eccezione preliminare presentata dagli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, la Corte d’Assise d’appello ha di fatto annullato l’ordinanza del collegio varesino presieduto dal giudice Orazio Muscato che aveva messo l’avvocato bresciano nelle condizioni di “doversi” avvalere del segreto professionale e a non dire nulla su “In morte di un’amica”, la lettera-poesia attribuita al 51enne di Brebbia sia dalla Procura Generale di Milano sia dalla sentenza di primo grado dei giudici di Varese; lettera che invece un cliente di Vittorini sostiene di avere scritto di suo pugno 32 anni fa.
Che cosa era successo nell’udienza di metà ottobre di due anni fa? La Corte d’Assise di Varese lo aveva posto di fronte a un aut aut. In altre parole, gli aveva detto: o dici tutto senza avvalerti del segreto professionale, e quindi potenzialmente anche il nome del cliente, o non dici nulla, nel rispetto appunto del segreto professionale.
Segreto professionale che, secondo l’ordinanza della Corte d’Assise, non poteva essere rispettato «in forma parziale o frazionata».
Ecco, proprio questo diktat avrebbe rappresentato una violazione di una noma di procedura penale, l’articolo 200.
Per dirla con il ricorso dei difensori dell’imputato, «non si comprende la ragione per cui l’avvocato Vittorini è stato impedito di rendere qualsivoglia dichiarazione anche su circostanze che avrebbero potuto risultare non coperte dal segreto professionale, ma che avrebbero potuto aiutare le parti. Nella ricerca della verità, magari insinuando qualche dubbio che avrebbe potuto giustificare nuove indagini e anche una nuova possibile perizia grafologica».
Un’interpretazione evidentemente condivisa anche dalla Corte d’Assise d’appello di Milano, presidente Ivana Caputo e giudice a latere Franca Anelli, che ha ammesso la super-testimonianza del legale bresciano.
«Volevo semplicemente dare conto di un fatto e il fatto è che qualcuno che non conoscevo si è presentato da me e in termini molto argomentativi mi ha spiegato le ragioni per le quali scrisse quello che scrisse e come lo scrisse, dando conto evidentemente del fatto che era totalmente estraneo alla vicenda criminale», aveva spiegato ai cronisti fuori dall’aula Vittorini, che torna ad essere di fatto un asso nella manica della difesa dell’imputato.
«Se la Corte d’Assise di Varese ritiene di poter fare a meno di questo, ne prendo atto, ma sono un poco dispiaciuto: mi sembra che non si sia voluto guardare».
© Riproduzione Riservata