IL CASO
Dal barcone alla pasticceria
Le storie di integrazione realizzate dal Cpia di via Rossini

Se avevano un sogno, quando sono venuti in Italia, ora ce l’hanno con ciliegina e panna montata. Inutile rimarcare che la miglior reputazione del Bel Paese passa per l’arte, ma in larga misura anche per la tavola e la buona cucina.
Perciò, una quindicina di stranieri di varia età e provenienza, con sufficiente padronanza della lingua, da venerdì sera, sono più italiani di prima. A loro, nella sede di via Azimonti, il Cpia del Basso Varesotto ha consegnato loro i diploma professionali di cucina e pasticceria. Di durata annuale, il corso è stato organizzato per la prima volta con i fondi dell’Unione Europea in collaborazione con Enaip, che regolarmente istruisce i propri ragazzi ai fornelli.
Marcello Bessegato, pasticcere e docente, ha confessato i suoi timori «in particolare riguardo alla barriera linguistica e culturale». Alla fine, però, «sono molto soddisfatto. Possono dire tutti la loro in qualsiasi laboratorio di pasticceria. In quanto a me, mi auguro di poter ripetere questa esperienza».
Ad applaudire il dirigente Anselmo Bosello, la sua predecessora Carmela Locatelli, che avviò il progetto, e la dirigente dell’Enaip Rina Sartorelli. L’entusiasmo dei neodiplomati era alle stelle: «Ho sempre visto la televisione con chef Cannavacciuolo e se penso quanto ho imparato per me è un sogno», ha affermato Fawzi Hicham, quarantenne marocchino. Non poche erano le donne, con lo chador a coprire il capo e bimbi al seguito: «Ci rallegra che siano in costante aumento le giovani mamme straniere che si iscrivono ai corsi di alfabetizzazione e avviamento lavorativo. Si rendono conto che non basta essere buone mogli e madri. Vogliono dare il loro apporto all’economia famigliare e rendersi indipendenti. L’integrazione passa attraverso di loro», ha affermato Bosello.
Senza velo né figli era invece la ventenne Myriam Rahmouni, tunisina. Nata in Italia, ci è ritornata un anno fa, dopo una parentesi nel suo paese d’origine: «Frequento informatica all’università, mi piace fare i dolci e immagino di potere spendere questa qualifica in lavori estivi o part-time».
In quanto a Ibrahim Rabea, diciassettenne egiziano, la sua storia si commenta da sé: «Non so da dove sono partito, perché sapete, ci chiudono dentro in modo che non vedi niente. Solo il mare, quando arrivi al barcone. Avevo qua un cugino, che faceva l’autista. È morto in un incidente stradale. Mamma non voleva partissi, ma io mi sono imbarcato comunque, tre anni fa, che ne avevo 14 da pochi giorni. A Busto ho trovato l’ospitalità della comunità Il Girotondo e per lavoro faccio carico e scarico merci a Cassano. Ho il permesso di rifugiato in regola e l’anno scorso ho conseguito la licenza media. Sono qua perché non sapevo cucinare. Ovviamente, spero di poterci cavare un lavoro. Adoro fare le torte», sostiene Ibrahim, con una allegria che stenta a tenere a freno.
Basterebbe osservare tanta vitalità per capire altrettante cose. Sul tavolo ci sono anche la Saint-Honoré dei neo pasticcieri e tè del Maghreb, speziato, servito caldo nella caratteristica teiera. Tutto buonissimo.
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