DELITTO MENDOLA
Ucciso nei boschi, assoluzione impugnata
L’imprenditore gelese torna a processo come mandante dell’omicidio

L’omicidio di Matteo Mendola si riapre in corte d’appello. Il pubblico ministero novarese Mario Andrighi ha impugnato l’assoluzione di Giuseppe Cauchi, imprenditore (gelo-bustese come gelo-bustese era la vittima) accusato di aver ordinato l’esecuzione del trentatreenne, compiuta nei boschi di Varallo Pombia nel 2017.
Hanno impugnato l’assoluzione anche le parti civili, rappresentate dagli avvocati Giancarlo Trabucchi e Anna Maria Brusa, con un ricorso autonomo, quindi non sulla falsariga di quello della procura.
Per gli avvocati Cosimo Palumbo e Flavio Sinatra si prepara un’altra battaglia per riaffermare l’estraneità di Cauchi con ciò che accadde la sera del 4 aprile 2017. Finora due gradi di giudizio hanno stabilito che Mendola venne ammazzato dal bustese Antonio Lembo - esecutore materiale e reo confesso - e dal complice Angelo Mancino, originario di Monte San Savino in provincia di Arezzo. Entrambi giudicati con rito abbreviato, ad aprile la cassazione dirà l’ultima parola sulle loro responsabilità.
Fu Lembo a indicare in Cauchi il mandante dell’omicidio ma al confronto diretto con l’imprenditore, voluto dalla difesa durante un’udienza in corte d’assise, il killer non fu in grado di confermare le sue dichiarazioni. «Non ricordo niente», seppe solo dire.
Matteo Mendola - conosciutissimo e molto amato nel rione di Sant’Anna - venne trovato senza vita la mattina di mercoledì 5 aprile del 2017 in un capannone dismesso della fabbrica Mir Plast, in mezzo ai boschi della valle del Ticino, in località Baraggia della frazione San Giorgio di Pombia. Il cadavere venne notato da un appassionato di archeologia locale che, di ritorno dalla spesa, si era inoltrato in quell’area ben conosciuta per espletare improvvisi bisogni fisiologici.
Il ragazzo aveva il cranio fracassato di botte inferte con almeno due oggetti contundenti (in seguito individuati nel calcio della Makarov calibro 9 usata per l’agguato rinvenuta in un canale e in una batteria per auto) e due fori di proiettile in entrata e in uscita dall’addome. I carabinieri del Norm di Arona, grazie a cellule telefoniche e sistemi di videosorveglianza, risalirono presto a Lembo, il quale ammise il proprio ruolo chiamando in causa pure mandante e complice.
Il movente? A parere del pubblico ministero Andrighi «Giuseppe Cauchi aveva un debito nei confronti dei familiari della vittima, che avevano lavorato nei suoi cantieri» Ma l’imprenditore difeso dagli avvocati Palumbo e Sinatra in aula dichiarò serenamente: «Non avevo alcun motivo per fare ammazzare quel ragazzo. È vero, i suoi parenti avevano lavorato per me e avanzavano dei soldi, ma piano piano li stavo pagando».
E la corte d’assise di Novara gli aveva creduto.
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