CRIMINALITÀ
Busto, maltrattamenti ed estorsioni
Pene definitive per i boss Vizzini e Rinzivillo

Maltrattamenti in famiglia aggravati dal metodo mafioso: il gup ha rinviato a giudizio Emanuele Napolitano, cinquantaduenne di origini gelesi, da sempre legato alla cosca bustese del clan Rinzivillo e a breve imputato a dibattimento. Il processo inizierà il 30 giugno. Con lui davanti al giudice anche Emanuela Vitale, Rosaria Napolitano e Antonella Napolitano, ossia madre e sorelle dell’uomo.
Le vittime di Napolitano, moglie e figlia, sono state collocate in una località protetta, per loro il ministero ha adottato la stessa misura che si applica ai testimoni e ai collaboratori di giustizia. Proteggerle è l’obiettivo perché hanno il terrore delle vendette della famiglia, dirette o trasversali che siano.
Quindici anni di torture psicologiche e fisiche, questo hanno raccontato le due donne agli inquirenti. I primi episodi risalirebbero al 2003, quando ancora vivevano in Sicilia. La trentanovenne all’epoca non conosceva l’agghiacciante passato del fidanzato: la sua prima moglie, incinta, venne ammazzata in un agguato teso al marito che però ne uscì indenne. Quando scoprì l’episodio era già in attesa della loro figlia e quindi nemmeno ci pensò a cambiare strada. La polizia di Busto Arsizio nel 2011 arrestò il mafioso e dunque il controllo sulle sue donne passò nelle mani di madre e sorelle. Aguzzine almeno quanto lui, almeno secondo i drammatici racconti raccolti dal pubblico ministero della Dda di Milano Alessandra Cerreti. Napolitano e le sue coimputate però hanno scelto il dibattimento, nessuno sconto di pena ma una difesa mirata a smantellare punto per punto le accuse mosse dalle vittime. Il processo si celebrerà a Gela, poiché in udienza preliminare a Milano il giudice aveva accolto l’eccezione dell’avvocato Domenico Margariti per incompetenza territoriale, essendo i primi fatti contestati commessi in Sicilia.
Per il cinquantaduenne la partita è ancora tutta da giocare. Non ci sono più supplementari per i vecchi reggenti della cosca gelese: la cassazione nei giorni scorsi ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Emanuele Italiano e Crocifisso Rinzivillo contro la condanna per concorso in estorsione continuata e aggravata di cui fu vittima l’imprenditore edile Massimo Incorvaia. Secondo il pentito Rosario Vizzini, i due avrebbero costretto la vittima dapprima a cedere un appalto a Fabio Nicastro e poi, visto che l’impresa non era in grado di svolgere il lavoro, di riprenderselo, ricavando così un profitto di 85mila euro. Fu lo stesso Incorvaia a dichiararlo in aula, durante il processo davanti alla corte d’assise di Busto Arsizio (presieduta dal consigliere Adet Toni Novik) per l’omicidio di Salvatore D’Aleo: «Mi mandavano a trattare per avere le commesse e poi mi chiedevano di girare loro i cantieri. Poi si rendevano conto di non essere in grado di fare i lavori e mi chiedevano solo la tangente. Le richieste di denaro erano incessanti, assegni da 5-10-20 mila euro per volta».
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