LA SENTENZA
Saluto nazista, ultras assolti
Il giudice: «Lo stadio era vuoto, nessuna apologia»

Assolti perché erano quattro gatti. Si potrebbero riassumere così le motivazioni della sentenza che ha sollevato i sei ultras finiti a processo per una foto apologetica scattata allo stadio e pubblicata su Facebook da Checco Lattuada. Il giudice Valeria Recaneschi è stata molto chiara.
«La posa appare rivestire natura di raggruppamento quasi privato. Lo scatto è durato pochi minuti e non ha determinato alcun pericolo per l’ordine pubblico. I pur esigui supporter della Pro Patria in quel momento erano andati al bar, i due o tre spettatori non facenti parte degli ultras erano ben poco interessati a quel che stava accadendo. Dall’assenza di offensività della condotta discende l’obbligo di assoluzione».
Ma alla storiella dell’equivoco sul saluto romano e su quello a tre dita il giudice non ha creduto.
«Emerge chiaramente che gli imputati abbiano effettuato il saluto a tre dita, non è credibile che lo abbiano fatto in un clima giocoso perché nel contesto delle tifoserie tali gestualità preludono ad azioni più violente. Non si può condividere la prospettazione difensiva secondo cui gli imputati non conoscessero il saluto a tre dita, né che il gesto sarebbe riferibile alla P38 ad altri significati dichiarati dagli imputati. Il gesto deve essere collocato nel contesto nel quale è stato posto in essere, ove è assai frequente l’esibizione di simboli e gestualità che incitano l’odio razziale o ad atti di violenza connotati da razzismo e discriminazione».
Lattuada, l’unico in foto con il braccio teso, si era difeso sostenendo che l’inclinazione del suo arto, 45 gradi rispetto al torso, non corrispondesse al canone dell’estetica e della postura fascista.
Il giudice Recaneschi non gli dà torto.
«Il suo gesto non è ascrivibile al genere del saluto romano. È di tutta evidenza invece che Lattuada abbia fatto il saluto nazista».
E aggiunge: «I gesti compiuti dagli imputati sono manifestazioni esteriori simboliche tipiche di movimenti aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali ed etnici».
Ma per Pro Patria-Renate quel giorno, 10 gennaio 2016, allo Speroni non c’era un’anima, se non quella dei pochi irriducibili.
«Tali circostanze inducono a ritenere che non risulti integrato il pericolo di provocare adesioni o consensi tra i presenti o di favorire la diffusione dell’ideologia razziale».
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