IL CASO
Sette anni di battaglia per un camoscio
Cacciatore abbattè per sbaglio un esemplare maschio e si autodenunciò pagando una multa, poi fece causa alla Provincia: alla fine la Cassazione gli dà torto

La battaglia per il camoscio è durata sette anni ed è arrivata fino in Cassazione. Il cacciatore, però, ha perso: i supremi giudici hanno detto “no” alla sua richiesta di riavere indietro l’equivalente in denaro del corpo dell’animale che nel 2011 aveva abbattuto “per errore” in un bosco del Verbano.
Il tutto per un capo che, dopo essere stato messo sotto sequestro dalla Provincia del Vco, era stato macellato e venduto all’asta per 106 euro. Il ricavato era stato poi versato alla Regione Piemonte.
Il cacciatore, munito di regolare licenza, sparò al camoscio il 4 settembre 2011, giorno di apertura della stagione venatoria. Ma commise un errore: in base al calendario poteva abbattere solo esemplari di sesso femminile, e quello era un maschio. Quando se ne accorse, l’uomo si autodenunciò nel centro di controllo competente e pagò una multa (ridotta). Poi, però, chiese la restituzione del camoscio perché, a suo parere, avendo versato il denaro, la sua preda non poteva essere confiscata. Ma l’amministrazione fu irremovibile: niente capo, niente soldi.
E così l’uomo si rivolse alla giustizia. Sia il tribunale di Verbania (nel 2013) che la Corte d’appello di Torino (nel 2015) gli diedero torto. Ora è arrivata anche la sentenza della seconda sezione civile della Cassazione, che dopo avere minuziosamente esaminato gli atti ha stabilito che «l’illecito abbattimento di un esemplare di sesso per il quale la caccia non era consentita ha impedito che la proprietà del capo sia stata acquisita dal trasgressore».
In base alle disposizioni introdotte nel 2012 dalla legge di Stabilità, il cacciatore dovrà pagare una ulteriore somma di denaro (a titolo di “contributo unificato”) identica a quella che versò per il ricorso.
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