MY WAY
Caffè a 1,60: nella tazzina c’è il carovita
La bevanda racconta l’amara realtà dell’aumento dei prezzi

In una tazzina di caffè c’è tutto il gusto amaro del carovita. Milano, un martedì qualunque di giugno, giornata calda come solo la metropoli sa offrire con tutte le controindicazioni: si boccheggia. Primo caffè della giornata. Costo: 1 euro e 60 centesimi. Il bar è in una zona centrale, vero, ma non un locale che dici «qui paghi anche arredo, posizione e notorietà». Dopo due ore, il secondo caffè, da altra parte, abbastanza anonima: un euro e 50. Attenzione, la questione non è Milano che pur risente di un carovita più elevato, la questione è il carovita che il caffè al bar misura in modo spietato e popolare. Anche a Varese, la tazzina ha fatto registrare un’impennata di prezzo (tra 1,20 e 1,30 il costo che va per la maggiore) che non è proporzionale ad altri fattori economici: per esempio gli stipendi. Ecco il punto: il carovita e gli stipendi. Tutti i dati (vedi Istat di un paio di settimane fa) indicano ormai un divario preoccupante tra le spese (carrello al supermercato, bollette, pizza e cena al ristorante) e le retribuzioni da lavoro dipendente. Quando si ragiona sugli argomenti di cui discute la gente comune (mentre beve un caffè al bar, sic!), la politica e gli stessi media tendono a trascurare questo, il vivere quotidiano, l’affanno nel far quadrare il bilancio famigliare. Rendiamoci conto che ciascuno, ormai, ha la propria spending review. Un ulteriore piano di riflessione (fonte della notizia: il bar) è sul potere d’acquisto che lo stesso stipendio (contratti collettivi) permette a Milano e Ragusa, a Roma e Vibo Valentia. Il caffè rende nervosi. Vero.
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