LA PARABOLA DI VALLANZASCA
C’era una volta il bel René: «Serve una casa di riposo»
Vaga con gli slip sopra i jeans, infila le scarpe nel frigo e non è in grado di autogestirsi. I medici del carcere di bollate hanno definito le sue condizioni «incompatibili» con la reclusione
«O mi fate parlare di tutto oppure il processo ve lo fate da soli, perché a me non interessa parlare con voi»: era il 14 settembre 1987, Renato Vallanzasca, citato come teste in un maxi processo, aveva ancora la pelle ambrata dal sole della latitanza. Il 18 luglio evase dall’oblò del traghetto ormeggiato a Genova, venne catturato l’8 agosto a Grado, tre settimane di vacanza al mare, con un’improbabile acconciatura a riccioli rossi. «Come vedo il mio futuro? Devo scappare ancora, ci sono alternative valide?», sogghignava dalla gabbia rispondendo ai giornalisti che affollavano l’aula. Era bello e indisponente, tirava schiaffi ma con quegli occhi e quella spavalderia guascona riusciva, almeno per qualche istante, a distogliere l’attenzione dalle sue nefandezze criminali. Di quell’uomo non è rimasto più niente. Nemmeno il simulacro. Poco prima di mezzogiorno la polizia penitenziaria l’ha riaccompagnato in carcere a Bollate quasi sorreggendolo. Un passo dopo l’altro, con pazienza. Ma con le manette, perché non si sa mai, perché si fatica ad accettare il crepuscolo di un bandito indomabile. Eppure ne ha dovuto prendere atto anche il sostituto procuratore generale Giuseppe Di Benedetto: assenso pieno al differimento pena in una Rsa. In regime di detenzione domiciliare sia chiaro, mica che dopo cinquant’anni di galera si allenti troppo la catena. Ma pur sempre fuori da un penitenziario.
Gli avvocati Corrado Limentani e Paolo Muzzi per l’udienza di ieri, martedì 10 settembre, davanti al tribunale di sorveglianza hanno prodotto una cospicua documentazione sanitaria che toglie ogni dubbio sulle condizioni del settantaquattrenne che negli anni Settanta mise Milano a ferro e fuoco. Demenza senile, più probabilmente alzheimer. «Non orientato, visibilmente confuso, accenna a battute di cui ride ma che non sono comprensibili perché l’eloquio è poco chiaro. Non esegue ordini semplici, non sa dire se abbia figli o una compagna, ha fluttuazioni nello stato di vigilanza». I cosiddetti concellini, i compagni di reclusione a Bollate, ne hanno visto il progressivo declino. Vallanzasca non è in grado di autogestirsi, spesso vaga per i corridoi con gli slip indossati sopra ai jeans, le scarpe le infila nel frigorifero, mangia se il cibo gli viene preparato e sminuzzato. Cade dal letto, è incapace di badare all’igiene e sono gli altri detenuti a ripulirgli la cella per garantirgli un minimo di decoro. «Le condizioni cliniche lo rendono incompatibile con il regime carcerario anche per la necessità di assistenza sempre più intensa e continua» ed è la diagnosi che arriva dall’ambulatorio di neurologia della casa di reclusione di Bollate. Entro venerdì i giudici Carmen D’Elia e Benedetta Rossi decideranno se abbassare la guardia e mandarlo in casa di riposo. La struttura è a Padova, l’hanno trovata gli avvocati Muzzi e Limentani con enorme fatica perché la diffidenza è più forte dell’accoglienza di un anziano malato. «Una persona in queste condizioni, non più autosufficiente, può essere ritenuta pericolosa? Il carcere - hanno argomentato i difensori in aula - non può ledere i diritti fondamentali dell’essere umano». Renato Vallanzasca era in udienza ieri, ma in uno stato soporso, assente, catatonico. La pena - quattro ergastoli e 295 anni di reclusione per omicidi, rapine, sequestri di persona, evasioni, oltraggi e resistenze - è ormai più lunga della memoria di ciò che fu negli anni della malavita milanese.
In attesa che gli venga nominato un amministratore di sostegno (il giudice tutelare sta ancora verificando l’esistenza di parenti che se ne facciano carico), per il 14 ottobre è prevista la visita del medico legale che si esprimerà sulla domanda di invalidità.
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