SILVIA BOTTINI
«Ciao Varese, ho scelto Los Angeles»
Dai teatri italiani alla capitale del cinema, la giovane attrice racconta la sua scelta di vita

Fuga di talenti all’estero? Una storia che ci riguarda da vicino. Come nel caso di Silvia Bottini, giovane attrice varesina, che vive a Los Angeles, città in cui ha scelto di trasferirsi per tentare la strada del grande cinema. Dopo molte esperienze teatrali a Varese, Milano e Genova, pur essendo riuscita a costruirsi un curriculum di tutto rispetto, ha deciso che per diventare professionista fosse necessario fare il grande salto, rischiando di ripartire da zero.
«A Los Angeles - spiega - al momento sto facendo dei Voice Over, doppiaggio-speakeraggio, per una compagnia giapponese. Ho organizzato e recitato in un evento all’Istituto Italiano di Cultura con l’eccezionale tenore Marco Berti; alla Stony Brook University di New York, col professor Silvio Raffo. Ho recitato in alcuni film: “The beginning of a very good summer day”, che, non appena sarà pronto, parteciperà a numerosi Festival; “The Fault” in cui ho una piccola parte. Continuo a studiare con insegnanti pazzeschi e faccio quante più audizioni possibili».
La scelta di andare in America come è maturata?
«Partendo dal fatto che ho sempre voluto fare cinema, anche se mi è capitato di fare soprattutto teatro. Los Angeles, o meglio, Hollywood è sempre stata nei miei sogni. Ho scelto di andarci a piccoli passi: prima in vacanza; poi per un workshop allo Strasberg’s Theatre and Film Institute e infine, facilitata anche dal fatto che il mio fidanzato doveva trasferirsi lì per lavoro, il trasloco definitivo».
Soddisfatta di questa scelta?
«Sì. Non ho ancora raggiunto tutti i miei obiettivi ma questa è la strada per farlo, per impedire alla consuetudine e alla paura di prendere le redini della mia vita. Significa che sono disposta a lasciare famiglia, amici, carriera e comodità di tanti tipi pur di rompere l’odiato schema di un lavoro poco pagato, poco gratificato e poco rispettato, che però è la mia vita, la mia vocazione. A livello pratico comporta tantissime cose inerenti la distanza da quella che è stata la mia vita per tutti questi anni; non poter consultare i miei amatissimi libri, che sono rimasti nella casa dei miei genitori; non avere i miei amici; avere pochissimo tempo anche solo per sentirli al telefono per via delle 9 ore di fuso orario; usare una lingua che non è la mia propria e che mi rende una straniera. Cominciare una nuova vita da zero richiede tantissima energia. Anche le cose più semplici, come fare la spesa o andare dal medico, non sono immediate. Le distanze qui sono enormi e all’inizio mi spostavo in bicicletta. Tutta salute, certo ma con la convertible è davvero meglio. Quando torno in Italia e qualcuno mi chiede “cos’hai fatto in America?” sono orgogliosa di me stessa, penso a tutti i passi mossi, poi realizzo che alla gente sembra sempre poco perché non considera la situazione iniziale».
Tanti vanno via dall’Italia per realizzare i propri sogni.
«La mia amica cantautrice Giua ha scritto una bellissima canzone che riguarda questo. Lei non è d’accordo ma io penso sia naturale. La mia generazione è stata penalizzata moltissimo a livello lavorativo. Non voglio entrare nel merito della politica ma certo la situazione non è promettente. Si respira un’aria depressa perché un’idea, un progetto spesso rappresentano non più un’opportunità ma complicazioni burocratiche. Stimo comunque molto chi resta e cerca di cambiare le cose».
Che differenza c’è con L’Italia?
«Vivo a Los Angeles da solo un anno, quindi potrei anche sbagliarmi, ma sebbene la crisi sia arrivata anche qui, continua ad esserci molto lavoro, specie nel mio settore. C’è anche tantissima competizione. Solo che qui il valore viene ancora cercato e riconosciuto».
Hai fatto tanto teatro in Italia, ora tenti il cinema; come mai?
«Principalmente per una questione economica. Il teatro non paga mai abbastanza. Nemmeno quando si lavora ad alti livelli e continuativamente. Quando si è fortunati, ci si campa, parlo soprattutto dell’Italia. Qui il Teatro è Broadway o Chicago, ma sono realtà a parte. Dopo quindici anni di professione, tanto studio e tanto sforzo, sarebbe bello poter godere di quello che si è costruito invece di essere licenziati perché il proprio cachet deve aumentare».
C’è un’altra ragione?
«Naturalmente c’è anche una ragione artistica. Da quando ho incontrato “the Method”, che in gergo è il metodo Strasberg, il mio approccio alla recitazione è cambiato. Mi viene a noia tutto ciò che è formale e non vero. Ho iniziato a cercare, anche inconsciamente, e a rifiutare certe convenzioni che invece in Teatro sono necessarie. Non ne sono ancora venuta a capo, ma ho l’esigenza di approfondire. Per farlo, la scelta era tra Russia e gli Usa. Per ragioni linguistiche ho optato per la seconda».
Addio teatro?
«È una bellissima malattia. Inguaribile. Un richiamo fisico. Al momento rappresenta una ferita aperta ma è qualcosa che mi appartiene, quindi non mi lascia mai davvero. Penso ancora a regie, a testi, a ruoli».
Sei stata allieva di Silvio Raffo.
«Il Professore, prima che un mio insegnante e un collega, è una delle persone che amo di più al mondo. Quello con lui è un rapporto che non si può interrompere. Poi, condividendo la stessa passione, o forse meglio lo stesso sentire, cerchiamo e troviamo anche occasioni per sopperire alla distanza. Per esempio abbiamo partecipato insieme ad una bellissima conferenza commemorativa su Guido Gozzano alla Stony Brook University di New York, recitando brani di Guido e della sua musa Amalia Guglielminetti di fronte a studiosi di molti Paesi del mondo».
Al tuo attivo tanta prosa importante, soprattutto a Genova che in realtà hai conosciuto prima giovanissima recitando Govi accanto a Max Cavallari?
«La mia prima esperienza professionale. Mi è servita in maniera incredibile. Se non fosse stato per i “Maneggi per maritare una figlia” ora non farei l’attrice. Non sono figlia d’arte e devo dire di non essere mai stata consigliata un granché bene. Finito il liceo Cairoli ho fatto il provino ai Filodrammatici di Milano, dove ho passato solo la prima selezione. Quel rifiuto mi ha procurato un’enorme sofferenza. Ed ecco arrivare il mio amico Antonello Motta con la notizia di un provino, che il suo amico Marco Gaiazzi gli aveva girato. Mi ricorderò sempre la frase che cambiò le mie speranze e prospettive. Il magnifico Marino Guidi mi aveva provinata. Al termine della lettura disse: “Io l’ho sempre detto che quelli dei Filodrammatici non capiscono nulla! Sei bravissima e la parte è tua!”. Questo è il primo di tanti bellissimi ricordi».
Quali sono state le esperienze più significative che hai fatto in Italia?
«La pluriennale collaborazione col Teatro della Tosse di Genova me ne ha procurate tante. Lo spettacolo che ho amato di più è senz’altro “Sonno” di J. Fosse, con la regia dello straordinario Valerio Binasco. Abbiamo vinto il premio nazionale della Critica, nel 2010. Con “Il Fantoccio” abbiamo vinto il Premio ETI (Ente Teatrale Italiano che ora non esiste più per mancanza di fondi) “Nuove Creatività” e ho realizzato il sogno di recitare dove si era esibita Eleonora Duse, al Teatro Valle di Roma, prima che venisse occupato. Siamo stati pubblicati su un libro che per caso ho trovato in vendita al Teatro Grassi, del Piccolo. Nessuno ci aveva spiegato a cosa servisse la nostra intervista. Grazie ad uno splendido progetto del premio Ubu Massimiliano Civica, “Facciamo Insieme Teatro”, per cui mi ha scelto, insieme ad altri 5 giovani tra 300 attori professionisti, ho studiato con l’erede di Grotowski, Thomas Richards. Ma tra i miei maestri di teatro non dimentico la Professoressa Anna Bonomi».
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