Come funziona la senologia a Varese

Le donne sono al centro del mondo di una donna speciale: Francesca Rovera, 42 anni, chirurgo che si occupa di senologia all'ospedale di Circolo di Varese e professore associato all'Università dell'Insubria, le donne le visita, le opera, le accudisce in ogni passaggio della malattia, le ascolta, le supporta, risponde alle loro mail anche quando le scrivono solo per sapere se possono fare la tinta ai capelli. Soffre e gioisce con loro. E così fa tutta l'equipe di cui è parte: con lei altri tre chirurghi, Marina Marelli, Lucilla Magnoni e Antonella Botter, e quattro infermiere, oltre alle tantissime fondamentali volontarie. Tutte donne.
Il Centro multidisciplinare di senologia di Varese, dove ogni anno vengono viste circa cinquemila donne e 700 vengono operate, è al momento una struttura trasversale, a cui collaborano i reparti di Chirurgia, Oncologia e Radioterapia. Rovera ne è la referente organizzativa, pur rimanendo nello staff della Chirurgia 1 diretta da Gianlorenzo Dionigi. Coordinatore è il direttore del dipartimento di chirurgia Eugenio Cocozza, il primo a credere in questo importante lavoro di squadra. Tanto da aver avviato, insieme alla direzione generale dell'ospedale, l'iter richiesto da Regione Lombardia perché il Centro possa diventare una delle Breast Units riconosciute a livello nazionale per requisiti di qualità e quantità. Di fatto si tratterebbe del riconoscimento ufficiale di una realtà che già c'è, lavora tanto ed è da tempo un punto di riferimento sicuro per la salute delle donne.
Dottoressa Rovera, in che cosa consiste il suo lavoro?
«Io sono un chirurgo generale, opero anche le appendiciti e le ernie per intenderci, ma ora sono dedicata al 100 per cento alla chirurgia senologica, che però non è una scuola di specializzazione. Senologo è una definizione impropria, che si guadagna sul campo occupandosi di questa materia. Il mio lavoro è dunque operare i tumori e le patologie benigne, ma la sala operatoria rappresenta soltanto una piccola percentuale della gestione della paziente, che va accompagnata in tutto il percorso, dalla diagnosi fino alla chemioterapia».
C'è un coinvolgimento emotivo in questo percorso?
«Quello che fai in sala operatoria è un atto tecnico, asettico. Quello che viene prima e dopo è il bello e il brutto del mio lavoro: la paziente si abbandona in un baratro e ha bisogno di qualcuno che la guidi, di un supporto psicologico contro i pensieri negativi. È questo che mi ha fatto innamorare del mio lavoro: stare accanto alle mie pazienti e gioire con loro quando si ottiene il risultato. Le donne quando si ammalano si preoccupano per i figli e quando tornano da me con i disegni per la dottoressa che ha curato la loro mamma io sono felice!».
Una sua giornata tipo?
«Ieri ho operato dalle 8 alle 18, oggi faccio 8-14 e poi ho ambulatorio. Questo è un lavoro che non puoi fare part time, le pazienti ti richiedono full time e oltre, al di là del contratto che hai, e tu non puoi sottrarti alle loro esigenze, alle preoccupazioni, al loro dolore».
Non si chiede mai ma chi me l'ha fatto fare?
«Me lo chiedono gli altri qualche volta, ma io mai. Sognavo di fare il chirurgo fin da bambina, da ragazza ho rinunciato tante volte a uscire il sabato sera con le amiche per studiare, io volevo fare proprio questo. La scelta chirurgica è una scelta di vita. Mi sono laureata nel 1997 e specializzata nel 2003 e ho avuto la fortuna di non perdere mai un giorno».
Essere donna in sala operatoria: quali ostacoli?
«Non sono mai stata ostacolata come donna, semmai qualcuno ha cercato di sconsigliarmi questo lavoro, ma sono sempre stata valutata per la professionalità e i titoli e non perché mi chiamo Francesca anziché Francesco. Ho avuto le stesse chance dei miei colleghi uomini. Il mio maestro Renzo Dionigi sicuramente non mi ha mai chiesto se volevo figli quando ho iniziato a lavorare».
Qualche difficoltà?
«Non posso negarlo. Sono sposata da 13 anni e ho un figlio di 9: ho lavorato fino all'ottavo mese e ho ripreso quando lui aveva sei mesi. Ma con Tommaso un rapporto bellissimo: lui sa che la mamma è in ospedale e a volte mi viene a trovare, ma quando sono a casa sono solo per lui, viviamo in simbiosi. E poi sa che a qualsiasi ora torno controllo il suo diario per firmare gli avvisi: questo piccolo gesto lo fa sentire sicuro. Certo devo dire grazie ai miei genitori che gestiscono la vita quotidiana di mio figlio e a mio marito che ha molta pazienza: però siamo insieme da tanti anni e lui ha sempre saputo che lavoro volevo fare».
Quante pazienti si rivolgono al centro?
«Ogni giorno vediamo circa 20 pazienti per gli esami e le visite, quindi in un anno ne vediamo cinquemila».
E quante ne operate?
«Nel 2014 su 800 casi di tumore alla mammella in provincia di Varese noi ne abbiamo operati quasi 500, più 200 per patologie benigne. Abbiamo anche molte pazienti vengono da altre regioni e dal sud Italia».
In quale percentuale il tumore al seno si può curare?
«La stragrande maggioranza dei tumori ha una curabilità oncologica, complessivamente si ha una sopravvivenza di cinque anni per l'84,5 per cento dei casi. Dipende soprattutto alla precocità della diagnosi».
L'importanza della diagnosi precoce si conosce ma vogliamo ribadirla?
«È fondamentale, anche se la dimensione del tumore della mammella è solo uno dei fattori, l'altro è l'aggressività. Noi consigliamo, se non ci sono sintomi o familiarità, di fare una prima visita senologica intorno ai 25 anni e poi di affidarsi a un centro come il nostro che, a seconda dei casi, programma visite ed esamie».
È vero che l'alimentazione conta nella prevenzione del tumore in generale?
«Tra i fattori di rischio per il tumore alla mammella non c'è solo il fattore ormonale, altrimenti ci sarebbe una distribuzione omogenea nei vari paesi. Contano anche i fattori ambientali e locali. Sicuramente evitare gli eccessi alimentari e fare attività fisica continuativa almeno tre volte alla settimana riducono il rischio».
Quindi lei dottoressa mangia bene e va in palestra?
«Io sono l'emblema di chi mangia male, vado al bar per un cappuccio quando riesco, mangio di corsa... Non sono un buon esempio! Però corro tanto: dalla sala operatoria al reparto e al centro. Ho messo sul mio cellulare il contapassi: a volte ne faccio 10-11mila!».
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