CORONAVIRUS
Sempre più frontalieri contagiati
L’allarme dal Ticino si allarga alle province di Varese, Como e Vco. Si teme una riapertura delle aziende in anticipo. E partono i primi licenziamenti

Il dato non è più empirico: un numero crescente di frontalieri occupati in Svizzera è positivo al coronavirus e accede agli ospedali delle province di Varese, Como e Verbania con sintomi riconducibili al Covid-19.
Gli annunci che sono obbligati a fare i vari sindaci alla popolazione dopo la scoperta nei propri Comuni di casi positivi fa partire una sorta di inopportuna “caccia al nome” del malato tra il resto degli abitanti che, inevitabilmente, spesso porta a identificare nei borghi il contagiato attivo nei più svariati settori, dai trasporti al sanitario, dalla meccanica all’edilizia.
Qualcuno ha deciso spontaneamente di annunciarsi senza grandi problemi sui social network, di raccontare la propria storia e la vita dopo il contagio e la guarigione. Spesso si tratta di persone di mezza età che non hanno forti complicazioni, in altri casi invece il virus crea problemi molto più intensi anche in persone giovani. Sia chiaro, nessuno imputa al posto di lavoro il contagio ma certo le riflessioni fatte nei giorni scorsi dai frontalieri stessi - che sui social network nei gruppi dedicati hanno descritto le loro paure ad andare in ditte affollate a lavorare - circa la necessità di chiudere tutto subito, possono essere utili a futura memoria e per la settimana prossima.
Alcune ditte che hanno ubbidito alle direttive del Governo ticinese tenendo chiuso nei giorni scorsi a cominciare dall’edilizia, potrebbero voler aprire poco dopo i primi giorni di aprile richiamando al lavoro i frontalieri fino ad ora rimasti a casa in base alle disposizioni nazionali e regionali italiane.
Senza contare cosa accadrebbe nelle famiglie. Sarebbe una beffa, ragionano da questa parte del confine, se dopo tanta “clausura” in casa il virus si prendesse sul posto di lavoro in un Cantone che ha 1.401 contagiati con 67 decessi su una popolazione di circa 340 mila persone.
Il responsabile della sezione malattie infettive dell’Ufficio federale della sanità pubblica, Daniel Koch, nella conferenza stampa di giovedì a Berna ha riferito che il picco dell’epidemia non è ancora stato raggiunto ed è presto per pensare di fare anche solo una parziale marcia indietro sulle misure restrittive che pesano sull’attività economica. Parole, queste, che lasciano ben sperare i tanti lavoratori italiani.
Il momento di grande crisi purtroppo alimentato anche dal virus, anche questo è facilmente verificabile sui gruppi Facebook, sta portando a diversi licenziamenti perché le aziende non hanno liquidità per sostenere gli stipendi e le piccole ditte rischiano la chiusura nonostante gli aiuti che la Confederazione riesce ad elargire nel giro di 48 ore.
Le richieste di credito sono decine di migliaia. I sindacati ticinesi avevano già lanciato l’allarme nei giorni scorsi rispetto alle segnalazioni di disdette di contratti dei lavoratori interinali italiani e ticinesi. Proprio ieri le organizzazioni sindacali italiane e svizzere che operano nelle aree transfrontaliere hanno lanciato un appello per attuare un piano d’intervento congiunto per frenare i contagi sui luoghi di lavoro e, per coloro che proprio devono lavorare, si chiede la garanzia «dell’effettiva possibilità di farlo nel rispetto delle norme igieniche accresciute e delle distanze sociali di sicurezza nelle imprese strategiche in attività».
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