«Sono guarito. Ma è una tragedia»

Le frasi s’interrompono quando la commozione è troppa e il dolore prende il sopravvento. Marino Corio è tornato a casa, guarito dal coronavirus, dopo che l’uragano lo ha travolto. «Io sto meglio, ma è una tragedia che non dimenticherò mai», dice lui, uno dei medici contagiati dello studio ambulatoriale Esamed, che ha pagato il prezzo più alto a questa emergenza: la morte di Roberto Stella.
Dottor Corio, il suo pensiero corre sempre a lui?
«Sì. Perché io ora sto meglio anche se non sto ancora bene. Ma Roberto non c’è più e lui, per me, era molto di più di un collega. Ci lavoravo dall’83, in simbiosi, tanto che per tutti eravamo inscindibili. È un dramma indicibile e non dimenticherò l’ultima volta che gli ho parlato, quando mi disse di star male e gli consigliai il ricovero. Non sono ancora riuscito a chiamare sua moglie, né i suoi figli. Non ce la faccio».
Lei ha superato il virus?
«Il primo tampone è stato negativo, aspetto quello di conferma. Ho vissuto dieci giorni terribili in ospedale, spesso con la mascherina, con sintomi molto forti, in un contesto drammatico».
Lei si è fatto un’idea di come si è contagiato?
«Non lo so. In quelle giornate ho visitato tante persone con febbre, ma non ho conoscenza di miei pazienti con coronavirus. Può essere successo fra noi colleghi, o in altri ambiti».
Anche lo studio è stato travolto dalla situazione...
«Sì ma non ci siamo fatti sopraffare. Dico grazie agli altri medici perché hanno operato in un clima di sofferenza. Subito sono state messe in protezione segretarie e infermiera».
Il fatto che lei e Stella vi foste infettati è girato in mille gruppi WhatsApp e su Facebook. Come lo giudica?
«È stato uno sciacallaggio. Ho saputo che mi davano in terapia intensiva e che girava anche la foto dell’ambulanza sotto casa mentre mi portava in ospedale. Non è umano».
In molti rivendicano il diritto di essere informati...
«Lo capisco, ma non ha senso che avvenga sui social. Se sono positivo dev’essere Ats a chiedermi chi sono stati i miei contatti e avvisarli. Ciò purtroppo non avviene, ma non ne faccio una colpa all’Ats: l’epidemia è esplosa troppo violentemente, tutti erano impreparati. Ma io ho subito mandato un messaggio a più persone possibili».
La fuga di notizie è stata una ferita in più?
«Indubbiamente sì. Io per lavoro entro nell’intimità delle persone da sempre e custodisco la loro privacy. Sono molto geloso della mia riservatezza e il modo in cui la storia è stata buttata in piazza è da incivili. Pensavo ai miei cari lì fuori angosciati, pensavo a Roberto solo e intubato».
Cosa ha visto in ospedale?
«Ho visto anziani e giovani in preda al dolore. Chi urlava, chi piangeva, chi si strappava l’ossigeno. Se non lo si vive, non si ha idea di quello che succede lì dentro».
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