DIRETTORE GENERALE
«I musei ultime cattedrali della contemporaneità»
Da Busto Arsizio alla Grande Brera: la sfida di Angelo Crespi

Di quella «cattedrale laica» che è la Grande Brera si definisce una sorta di «amministratore di condominio». Angelo Crespi, classe 1968, di Busto Arsizio, da quasi un anno è il direttore generale della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense e, dal 7 dicembre, anche di Palazzo Citterio, l’edificio aperto al pubblico dopo 52 anni di attesa. E a inizio dicembre gli è stata affidata anche la gestione del Cenacolo di Leonardo.
Dal Maga di Gallarate alla Grande Brera è stato un salto non poco impegnativo. Per altro, quando ha preso possesso della direzione generale ha ricordato un suo illustre predecessore, Giuseppe Bossi, bustocco come lei.
«La prima sensazione è stata quasi comica: non sono stato nemmeno il primo di Busto Arsizio a rivestire questo incarico. Una cosa che aiuta a relativizzare la giusta vanità per aver raggiunto un posto così importante e prestigioso. Peraltro, al mio lontano predecessore si deve la nascita della Pinacoteca in un momento straordinario per Brera e Milano tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, grazie a Maria Teresa d’Austria prima e Napoleone I dopo. Non dimentichiamoci che Bossi aveva a che fare con il meglio della cultura del suo tempo: Appiani, Canova, Hayez, Durini».
Cosa si aspettava il giorno in cui fu nominato e come è andata fino a ora?
«Ricordo ancora quando ho avuto notizia della mia nomina: era il 15 dicembre di un anno fa e stavo partecipando a una festa degli amici del MA*GA a Gallarate. C’era Cristina Mazzantini: anche lei seppe in quel frangente di essere stata nominata direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Una concomitanza felicissima. Quando poi il 15 gennaio mi sono insediato, mi sono subito reso conto della portata di un impegno che definirei totalizzante. D’altronde, sei a capo di un’istituzione pubblica grande e complicata, una “fabbrica culturale” con oltre 200 dipendenti. I primi mesi sono stati duri, quasi angoscianti, anche perché dovevo mantenere fede al mandato affidatomi dall’allora ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, di riaprire Palazzo Citterio il giorno di Sant’Ambrogio. Ho avuto la determinazione e la perseveranza di non perdere mai di vista l’obiettivo».
L’attuale ministro Alessandro Giuli ha speso parole più che lusinghiere nei suoi confronti il giorno dell’inaugurazione di Palazzo Citterio. Senza dimenticare che fu l’ex ministro Sangiuliano a volerla in quel posto. Come si rapporta lei con il potere politico?
«Una prima riflessione da fare è che con la riforma Franceschini del 2014 i direttori dei musei statali, veri e propri direttori generali di un ministero, hanno piena autonomia e grandissime responsabilità. Certo, è compito del direttore farsi garante di raggiungere gli obiettivi prefissati da politica e burocrazia, ma devo dire che Milano non è Roma. Il rapporto con la politica è molto più semplice. Qui a Milano siamo lontani dalle logiche di Palazzo e anche più liberi».
Ci parla di Palazzo Citterio e della chiusura di un cerchio che coincide con la nascita di quella che ora si definisce “Grande Brera”?
«Non posso che essere molto felice per il varo di Palazzo Citterio. Il palazzo è bellissimo e il museo lo è altrettanto. L’idea di Franco Russoli della Grande Brera fu quello di comprare Palazzo Citterio e ampliare la parte espositiva della Pinacoteca pensando di innestare nell’edificio contiguo l’arte allora contemporanea. Ciò che oggi si aggiunge rispetto al progetto originario è che la Grande Brera non ha solo una funzione espositiva. Brera è un luogo pazzesco. Da vari secoli qui si fa arte, ricerca, formazione, innovazione e conservazione. Ho voluto rifare il marchio di Grande Brera perché sono convinto, come direttore della Pinacoteca e della Biblioteca, ma anche come “amministratore di condominio” di tutti gli spazi che lo compongono, che se noi e l’Accademia, l’Osservatorio e l’Orto Botanico riuscissimo a comunicare assieme tutto questo patrimonio, allora potremmo far capire che siamo di fronte a un luogo straordinario, a un unicum al mondo. Adesso superiamo il mezzo milione di visitatori l’anno e sono convinto che possiamo fare molto di più. Nel cortile dominato dalla statua di Napoleone di Canova le telecamere hanno censito 1,8 milioni di passaggi al mese. Significa che è un luogo centrale nelle dinamiche culturali della città».
Le sue opere imperdibili della Pinacoteca?
«Scelgo la “Pala Montefeltro” di Piero della Francesca, che credo sia stato forse il più grande pittore e teorico della pittura di tutti i tempi, e “La Pietà (o Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni)” di Giovanni Bellini, cognato di Mantegna, forse uno dei quadri più belli e intensi dell’intero Rinascimento. “Il bacio” di Hayez ormai è un dipinto-icona. A primavera porteremo una scultura della Pinacoteca, ora in deposito alla Gam di Milano: sono convinto diventerà una nuova icona del nostro museo. Infine, a Palazzo Citterio, credo che il must sia “Fiumana”, il dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo che precedette “Il Quarto Stato”».
Alle aziende lombarde ha proposto un “Patto per Brera” nel segno del mecenatismo 2.0. Chi vi finanzia, gode di importanti benefici fiscali…
«Ho mutuato l’esperienza che stavamo facendo al MA*GA, in seguito sfociata nel “Patto per le arti” con Confindustria Varese. L’idea è di attrarre attraverso lo strumento dell’Art Bonus donatori che sostengono strategie e progetti di Brera. Il “Patto” è stato sottoscritto da una decina di firmatari, tutti imprenditori molto importanti. Non voglio solo donatori ma persone in carne e ossa che mi diano una mano. L’obiettivo è di raddoppiare il numero dei grandi mecenati».
Museo come ultimo baluardo di una certa etica: lo dimostra il fatto che i militanti di Ultima Generazione vanno a imbrattare l’opera d’arte o il museo per protestare contro i cambiamenti climatici…
«Parlo dei musei: a mio avviso sono le nuove cattedrali della contemporaneità. Cattedrali laiche a cui la gente affida una salvezza laica. È dunque comprensibile che le persone prendano di mira anche i musei: perché vogliamo dissacrare un luogo che considerano sacro».
Visto che è di Busto anche Massimiliano Gioni, già enfant prodige dell’arte contemporanea e attuale direttore del New Museum di New York, sembra che tra la sua città, l’arte e i musei ci sia un legame speciale.
«Gioni ha frequentato il Liceo Classico Crespi lo stesso anno di mia moglie, io lo stesso anno di suo fratello. Diciamo che, non essendoci niente a Busto si emigra per fare cose, ma sempre pensando in grande. Che è un po’ lo spirito nella nostra città d’origine».
© Riproduzione Riservata