LA STORIA
Dal Gambia a Busto Arsizio: la storia di Musa (VIDEO)
La storia di Jawneh, 23 anni, in Italia dal 2017. Ora lavora come magazziniere e racconta alla Prealpina il suo viaggio e l’arrivo in città
Ha i denti storti perché glieli hanno rotti, ma il suo sorriso resta solare, anche se timido. Musa Jawneh è a Busto Arsizio da quest’estate. Lavora al City Garments e abita a Sant’Anna nella Domus Madre Teresa, la casa dei senzatetto. Ogni mese manda circa 350 euro a casa che in Gambia sono quasi una fortuna. Servono per dare da mangiare ai tanti fratelli che ha. La sua storia merita di essere raccontata non per buonismo ma perché dà l’idea di cosa significhi essere un migrante dentro un mondo dove nessuno ti vuole ma che tu puoi conquistare giorno dopo giorno, passo dopo passo, solo se riesci a contrapporre all’odio, alla violenza, alla prevaricazione, non solo di tanti stranieri (i bianchi), quanto di quelli che dovrebbero essere i tuoi amici (gli stessi africani), la forza della tua buona volontà, della necessità di resistere e di sopravvivere. Perché il domani (forse) sarà migliore.
Una grande famiglia
«Quando ero al mio Paese, a sedici anni, ho iniziato a sentire che in tanti volevano scappare. Ogni giorno c’erano persone che se ne andavano via perché in Gambia non va bene. Unico lavoro è in campagna: se piove metti le piantine ma se non piove non riesci a far crescere nulla. Da quando sono piccolo seguo la mia famiglia in campagna. Io ho una grande famiglia, non riesco a contare tutti i miei fratelli. Mio papà, prima di morire, ha sposato la moglie di suo fratello. Noi siamo in tanti. E poi sono andato poco a scuola. Ho imparato arabic ma non inglese perché se non hai i soldi non puoi andare a scuola. In tanti sono così in Gambia».
Arance e peperoni
«Me ne vado perché capisco che è difficile vivere in Gambia. È il 2017 e parto a piedi fino alla città più vicina, cammino un paio di chilometri e chiedo ad alcune persone dove andare e aspetto il furgone. Quando il furgone arriva mi porta fino al Senegal che non è molto distante. Entro dentro il Paese. Poi vado con un venditore che porta merce al confine e arrivo in Mali e in Algeria. Ma non avevo più soldi e mi aiutano alcune persone che stavano in una moschea. Poi mi hanno detto che non bastavano e avrei dovuto dare il resto, lavorando. In Algeria infatti sono rimasto tre mesi per coltivare una campagna dove c’erano peperoni, arance, limoni e portavo gli animali al pascolo, alcune pecore. Ogni mattina uscivo in campagna, faceva tanto caldo».
Nascosti sotto la merce
«Non potevo dare notizie ai miei genitori. Non avevo il telefono cellulare. Ho potuto telefonare solo quando sono arrivato in Libia. Lì basta che paghi puoi avere tutto. Appena ho avuto un po’ di soldi mi sono fatto portare in Libia, sempre con il furgone. Mi sono nascosto sotto le borse con alcune persone e abbiamo passato il confine. Il viaggio è durato tre giorni perché non si poteva andare diretti. Ci nascondevamo, senza passare dalle città dove c’è la polizia. Finalmente mi hanno portato in un terreno vicino al mare dove c’erano tante tende. Io sono rimasto lì altri tre mesi perché non avevo i soldi per partire. Mi sono messo a lavorare tutti i giorni. Ho trovato una signora che mi faceva coltivare la campagna. Davo anche una mano come muratore. Ho visto alcune violenze in questi campi. Lì devi pagare al mattino, altrimenti ti mettono in prigione. Qualcuno che è buono lo fanno lavorare. Io mi sono salvato perché aiutavo questa signora anziana. Si sono fidati di me. Mi davano dieci dinari e il mangiare».
Sul gommone senza scafista
«Mi hanno avvisato una sera che dovevo partire. Se il mare è a posto domani si parte: ho sentito dire così. Alle sei eravamo in tanti che volevamo partire, quelli rimasti giù sono stati portati indietro. Li hanno picchiati anche con i bastoni o ti ammazzano con la pistola se ti muovi che non puoi entrare. Eravamo tutti su un gommone. Saremo stati in 160. Fino alle cinque-sei di sera siamo rimasti in mezzo al mare, finché non ci ha visto una nave grande. Ci ha salvato. Con noi non c’era nessuno scafista. La barca veniva guidata da alcune persone che avevano viaggiato con noi e che avevano provato qualche giorno prima, ma senza che sapessero davvero come fare. Siamo stati fortunati perché i bambini iniziavano a piangere ed erano stanchi dentro la barca. Ci hanno preso uno alla volta per salire sulla nave. Ci hanno controllato, hanno scritto il nostro nome e cognome e ci hanno dato da mangiare. Siamo sbarcati a Lampedusa. Io non sapevo dove fossi, l’ho sentito che lo dicevano. Il viaggio sulla nave è durato circa tre giorni. Quando siamo arrivati hanno chiesto ancora nostro nome e cognome e abbiamo potuto riposare. Sono rimasto pochi giorni nel centro d’accoglienza. Mi hanno accompagnato con autobus. C’era la lista e lì c’era il mio nome. Ognuno aveva la sua destinazione. Mi hanno portato in provincia di Catania, a Ramacca. Mi hanno fatto fare doccia e dato vestiti. Ho iniziato ad andare a scuola per imparare italiano. Sono rimasto lì un anno e sette mesi. Stavo bene, poi mi hanno trasferito a Pachino in provincia di Siracusa dove ho iniziato a raccogliere pomodori. Ho fatto amicizia con alcune persone che erano con me ma ora non li vedo più, alcuni sono in Germania. Intanto sono diventato maggiorenne e, dopo sei mesi, ho potuto andare dove volevo. Ogni settimana prendevo il pocket money da quando sono arrivato in Italia. Ho messo i soldi da parte e ho comprato il cellulare con la scheda. Così ho finalmente potuto sentire la mia famiglia».
Prima Ramacca, poi Pachino
«Nel 2017 ero a Ramacca, a febbraio del 2019 ero a Pachino. Anche durante il covid ho lavorato. Mi sono fermato solo per fare il vaccino, poi ho continuato a lavorare. Sono arrivato a Busto Arsizio quest’estate. Sono venuto qui per lavorare. A Ramacca mettevo i pezzi di pollo nel cartone e a Pachino i pomodori dentro le cassette. Sono venuto in aereo a Malpensa e ho iniziato a cercare lavoro a Busto Arsizio. Appena arrivato sono andato in Comune dove fanno i documenti. Ho detto che cercavo lavoro e un posto dove stare per dormire. Mi hanno detto che non riuscivano ad aiutarmi e di andare ai servizi sociali. E lì mi hanno mandato in stazione dove c’è il dormitorio. Mi hanno dato da mangiare. Ma non c’era posto per dormire e mi sono messo sulle panchine in stazione. Poi al mattino ho iniziato a cercare lavoro. Busto Arsizio è una scelta casuale, l’ho visto sulla mappa a Pachino dove si vedevano tutte le regioni d’Italia e ho detto vado in zona di Busto Arsizio. Sono entrato in negozio, ho detto buongiorno. Mi hanno chiesto curriculum e loro hanno fatto la copia. Quando sono arrivato in Italia mi avevano preparato tutti questi documenti e io li ho portati con me e li ho dati all’azienda».
Vacanza nel mio Paese
«Sono venuto a Busto Arsizio a giugno, il 25. Da allora sono qua. Adesso che ho trovato lavoro sono contento. Ho 23 anni, vado a scuola, non penso ad altro. Sento ogni tanto la mia famiglia. Non ho nessun fratello qui. Sono solo. Gli amici che ho conosciuto in viaggio sono in giro. Il mio sogno è di avere un lavoro, di guadagnare un po’ di soldi e vorrei tornare al mio Paese perché è da otto anni che manco. Vorrei vedere come è cambiato. Vorrei fare una vacanza, anche di un mese».
© Riproduzione Riservata