L'ESCLUSIVA
Dietro quel piccone, la solitudine
Intervista esclusiva a don Fabio Baroncini, coadiutore a Varese fino al 1986 e da allora parroco di Niguarda: "Il tiplice omicidio? Inutile invocare la sicurezza"
"Aumentare i controlli di
polizia? Non credo che serva. Anzi sono certo che non risolve il problema. Quel
che è accaduto la mattina di sabato 11 maggio qui, a Niguarda, rivela
l'imprevedibilità della vita. Soprattutto per chi ha la presunzione di riuscire
a governarla sempre e comunque. Accrescere il numero dei vigili urbani o
recriminare per il mancato, tempestivo allarme ai carabinieri sono palliativi
che non possono risolvere la questione più importante. Quella da cui
scaturiscono tragedia come quelle costate la vita a tre innocenti massacrati a
colpi di piccone da uno sconosciuto".
A ribadire il senso dell'omelia
funebre per Ermanno Masini e Daniele Carella, due delle tre
vittime di Adam Mada Kabobo (la
terza è Alessandro Carolé) è don Fabio Baroncini, oggi settantunenne, e
prevosto di San Martino in Niguarda da ventiosette anni. Cioè da quando lasciò
Varese.
Rimasto lontano da telecamere e taccuini, don Fabio
ha accettato di spiegare il proprio pensiero su quest'immane tragedia, aprendo
spunti di riflessione ulteriore dedicati anche alla sua Varese.
Quella lasciata
ventisette anni fa proprio per prendere l'incarico di parroco a Niguarda e in
cui ritornerà per la prima volta in vesti ufficiali di relatore, il 30 maggio
prossimo per la commemorazione pubblica di monsignor Enrico Manfredini.
"La prima
risposta al dolore dei famigliari delle vittime l'ha data proprio la comunità
di Niguarda, coesa e silenziosa - spiega don Fabio, per vent'anni, dal 1966 al
1986, coadiutore in San Vittore e responsabile degli studenti cattolici
varesini -. Non si sono cercate spiegazioni, né si sono date risposte. S'è
invece fatto della propria coesione il punto d'appoggio da offrire grauitamente
a tre famiglie straziate. Credo che questa sia la strada migliore per dare un senso
alla parola società".
Nella sua omelia, lei ha detto
fra l'altro "occorre dare un senso alla vita anche perché la solitudine non ci
schiacci, perché anche quel povero diavolo che lo ha fatto, lo ha fatto anche
perché era solo".
Era solo o è clandestino?
"Che sia clandestino lo dice
la legge ma ciò non spiega come sia possibile che, pure in un tessuto sociale
degradato, un uomo perda la testa a tal punto. Credo si debba risalire a una
domanda più forte e scomoda: quanto incide la solitudine nella disperazione e
quanto siamo capaci di rispondere alla solitudine altrui con la condivisione".
Condividere.
Sembra di riascoltarla in quei dodici minuti di preghiera comunitaria, tra la
fine degli Anni Settanta e l'inizio degli Anni Ottanta, in cui si risolvevano
le ricreazioni al liceo classico Cairoli di decine di studenti, ammassati al
piano terra in una classe della sezione E.
Come provavano a spiegare i
partecipanti, quei dodici minuti erano la negazione dell'abitudine della
ricreazione fine a se stessa. Erano fors'anche la risposta più o meno
consapevole al nichilismo degli epigoni della destra ben vestita e al
negazionismo del senso religioso dei propugnatori della lotta proletaria sempre
e comunque. Di fatto sono stati un'esperienza unica.
"Unica cioè straordinaria,
visto che la domanda che ci ponevamo tutti insieme, allora, è la stessa di
oggi. Come rispondere alla pretesa di dare un significato alla vita senza
cadere nella banalità".
Trova banale la richiesta di sicurezza che si leva a più voci?
"La trovo inutile. Se non
sappiamo condividere la solitudine di chi ci vive accanto, qule sicurezza
possiamo invocare? Piuttosto trovo certe prese di posizione pubbliche
funzionali a un progetto politico".
Anche
grazie a quei dodici minuti quotidiani, Varese è stata fucina dell'esperienza
di Comunione e Liberazione, cioè del messaggio di don Luigi Giussani. Ma è
stata anche il laboratorio genetico della Lega Nord.
"Quando partii per l'incarico
di Niguarda, il tessuto sociale della città si presentava come un terreno di
coltura ideale per rivendicazioni che anni dopo sono state fatte proprie dalla
Lega Nord. Ricordo che già monsignor Manfredini, al mio arrivo a Varese, nel
1966, mi metteva in guardia dal tessuto culturale della cità, chiusa per non
dire impenetrabile. La diffidenza, se non la refrattarietà per chi o ciò che è
diverso da sé, nasce proprio da questa chiusura. Non è un caso che i venti
rivoluzionari del Sessantotto, Varese l'abbiano solo lambita".
La Lega Nord, sabato 11 maggio è
stata fra le prime a chiedere immediate restrizioni legali contro la
clandestinità.
"Ripeto. Il problema è la
solitudine. L'operaio che uccide padre e figlio a Bernate Ticino o la mamma di
Busto Arsizio che getta i propri due figli dal balcone, non sono clandestini.
Piuttosto mi sembrano soli. Disperatamente soli. E non esiste legge che curi i
mali generati dalla solitudine".
Don Fabio manca da ventisette
anni da Varese, poco prima dell'omicidio di Lidia Macchi, caso irrisolto che ha
segnato un'epoca. Ci ritornerà a Varese alla fine di maggio, per commemorare
proprio monsignor Enrico Manfredini, morto vescovo di Bologna ma che della
Basilica di San Vittore fu prevosto dal 26 maggio 1963 al 4 ottobre 1969. Che ricordo serba
della città?
"Un ricordo sfocato ma anche
la memoria d'un esperienza per me importante qual è stato l'insegnamento al
liceo classico Cairoli, cioè in un ambito assai vivace sia per merito dei
colleghi sia per le capacità dei ragazzi che avevo come studenti. Quel tempo è
stato un momento significativo del mio cammino. E non credo solo del mio".
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