CASO MACCHI
Dna sulle buste, altre indagini
I profili genetici potrebbero essere comparati con la Banca dati nazionale

L’ipotesi è stata avanzata al termine dell’udienza di mercoledì 19: comparare il profilo genetico maschile trovato sulla lettera anonima “In morte di un’amica”, recapitata il 10 gennaio 1987 ai genitori di Lidia Macchi, con quelli già presenti e “schedati” nella Banca dati nazionale del Dna. Quest’ultimo è uno strumento informatico ad uso forense realizzato da poco, nel quale però sono stati finora inseriti soltanto un migliaio di profili genetici. La conferma del fatto che sarebbe possibile procedere al confronto – se giungeranno tutte le autorizzazioni necessarie – è arrivata dal biologo Roberto Giuffrida, responsabile del Gabinetto regionale di polizia scientifica, durante la sua audizione in Tribunale dinanzi alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato. Le possibilità che si arrivi a un risultato utile, per la verità, sembrano piuttosto remote, ma si tratterebbe comunque di un ulteriore tentativo per raccogliere elementi utili, dopo che gli accertamenti genetici sulle due buste – quella di “In morte di una amica” e dell’altra, sempre anonima, “Una mamma che soffre”, dove è stato isolato un profilo genetico femminile – non hanno permesso di attribuire il Dna ad alcuna delle persone coinvolte nella vicenda, tra cui Stefano Binda, il 49enne di Brebbia attualmente unico imputato per il delitto della studentessa avvenuto trent’anni fa.
I tre periti sentiti in aula (oltre a Giuffrida, anche il genetista forense Carlo Previderè e la biologa Pierangela Grignani), infatti, hanno sostanzialmente fatto una serie di esclusioni di profili genetici raccolti, ma «entrambi i profili di chi leccò le due buste sono rimasti anonimi», è stata la conclusione.
Per l’accusa, sostenuta in aula dal pm Gemma Gualdi, a prescindere da chi chiuse e affrancò la missiva con la propria saliva, resta il fatto che l’autore di “In morte di un’amica” sarebbe Binda e quindi, essendo in quelle parole descritte l’ipotetica scena del delitto, lui è anche l’assassino. Una duplice possibilità sempre respinta con forza dall’imputato e dai suoi difensori, gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli. Tra i reperti sequestrati a casa di Binda ci fu anche una ciocca di capelli, ma pure su questo aspetto i consulenti non hanno potuto fornire elementi utili all’impianto accusatorio: «Ne è stato ricavato un profilo mitocondriale ed è risultato perfettamente compatibile con quello dell’imputato». Tradotto: quel ciuffo di capelli era dello stesso Binda.
Nulla di fatto anche per quanto riguarda gli accertamenti su lame e coltelli rinvenuti dai militari del Genio guastatori di Cremona al Parco Mantegazza di Masnago: nel febbraio dell’anno scorso, per circa un mese, su indicazione dell’allora pg Carmen Manfredda i soldati scavarono alla ricerca della possibile arma del delitto, dopo alcune rivelazioni fatte dagli inquirenti da Patrizia Bianchi, amica di Binda all’epoca della morte di Lidia e considerata supertestimone del processo, e consegnarono ai periti una ventina di oggetti compatibili raccolti dal terreno. Tutti sono stati passati al microscopio dagli esperti, concludendo che «non sono stati rinvenuti profili genetici, ad eccezione di un coltellino piccolo inadatto a uccidere una persona, e sul quale comunque è stato rinvenuto un profilo genetico diverso da quello dell’imputato». Del resto, le possibilità di trovare tracce ematiche ancora utili a trent’anni di distanza, come ha sottolineato Giuffrida rispondendo a una precisa domanda, erano «una su un milione di miliardi».
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