EPIFANIA 1998
Elia, la strage e la follia. «Volevo che si curasse»
Sterminò la famiglia. È da 24 anni in carcere. Parla il legale che lo difese

«La mente di Elia era come un’orchestra dove ci sono tutti gli strumenti, senza però il direttore d’orchestra. Il violino suonava per conto suo... ». Questa definizione viene data oggi dall’avvocato, Gianfranco Orelli, che a suo tempo aveva difeso, insieme all’avvocato Ettore Maccapani, Elia Del Grande, autore nella notte tra il 6 e 7 gennaio del 1998 del massacro di Cadrezzate: uccise in sequenza, a colpi di fucile, il padre Enea, la madre Alida e il fratello Enrico.
A distanza di 24 anni esatti, oggi, 6 gennaio, l’eco di quella strage si sente ancora. Non a caso, viene catalogato tra i fatti di sangue più gravi, tremendi, nella storia d’Italia.
«L’aspetto penalistico - racconta il legale Orelli - era secondario rispetto alla complessità e abnormità della personalità di Elia». Lui, Orelli, ha conosciuto bene il giovane allora 23enne: ci ha parlato numerose volte in carcere, conversazioni che non sono - ovviamente - confluite negli atti processuali. «Alternava momenti in cui manifestava sentimenti di dispiacere e sofferenza ad altri di liberatorio sfogo e lì si capiva che parlava di qualcosa di piacevole». Passava dalla frustrazione al compiacimento. «Mi colpiva la sua spontanea incapacità di distinguere, rivangando quello che era successo, ciò che dà piacere da ciò che affligge».
«Si fidava di noi - aggiunge Orelli - ma a volte assumeva un comportamento aggressivo che aveva imparato a contenere». Nella testa di Elia, come detto, c’erano (parliamo dell’epoca del processo) tutti gli strumenti di un’orchestra. Anche una spiccata intelligenza. Davanti al suo legale, soli, seduti uno di fronte all’altro nella sala di colloqui con gli avvocati, ha fatto cose inimmaginabili, sorprendenti anche per i periti chiamati a valutare la psiche e la grafia di Elia: scriveva su un foglio e intervallava righe redatte da sinistra verso destra, ad altre in senso opposto e con le lettere rovesciate. Lo faceva con scioltezza. E faceva disegni mostruosi.
Pazzo? «La patologia che gli è stata riconosciuta c’era tutta, secondo me c’era anzi molto di più» osserva l’avvocato Orelli. Il processo: Del Grande, il primo dicembre del 2000, ad esito di 27 udienze, fu condannato in primo grado a Varese a tre ergastoli, uno per ogni vittima. I suoi avvocati impugnarono il verdetto e in appello ecco il colpo di scena: i giudici tennero in forte considerazione la seminfermità di mente, riconosciutagli, e da tre ergastoli si scese a trent’anni, con la possibilità di essere a pieno titolo erede dei beni della famiglia che aveva sterminato.
A quel punto, Orelli e Maccapani volevano proseguire fino in Cassazione per ottenere che Elia venisse tenuto non in carcere ma in struttura di cura, «senza mai uscire ovviamente, ma per essere sottoposto a terapia». Ma Del Grande non volle più l’assistenza dei due legali varesini. E così, dal 1998, è rinchiuso in carcere.
Ora si trova nella casa circondariale di Cagliari, in precedenza era stato a Varese e Pavia (da quest’ultimo penitenziario ha tentato una fuga da film che gli è costata un’ulteriore condanna e soprattutto la possibilità di accedere a un regime di semilibertà). Dopo 24 anni è ancora in prigione. Rischia di diventare uno dei pochi detenuti che scontano la pena fino all’ultimo giorno. Giusto, forse. Il rammarico è che non abbia avuto un percorso di cura in una struttura (anche semi-penitenziaria) per disturbi psichiatrici
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