CHI DICE DONNA
Lady Yamamay: «Famiglia maschilista? Ho avuto più stimoli»
Barbara Cimmino, vicepresidente di Confindustria Varese: «Ragazze, studiate»

A un certo punto dell’intervista l’imprenditrice Barbara Cimmino, 54 anni, co-fondatrice di Yamamay, si toglie il proverbiale sassolino dalla scarpa con un’eleganza spiazzante: «Io vengo da una famiglia estremamente maschilista, quindi paradossalmente ho avuto più all’esterno che nelle aziende di famiglia la possibilità di esprimermi». Cerchiamo di capire. Per «aziende di famiglia» s’intende in breve Yamamay e Carpisa, controllate dalla Pianoforte Holding di cui è presidente Luciano Cimmino, papà di Barbara e di Gianluigi, che ne è l’amministratore delegato: qualcosa come 300 milioni di euro di business. Per «esterno» s’intende invece che lei, la figlia maggiore, è vicepresidente di Confindustria Varese, che rappresenta Sistema Moda Italia nel board di Euratex (confederazione delle aziende tessili di 26 Paesi), che è nel comitato esecutivo di Confimprese. Eccetera. L’elenco delle cariche di Lady Yamamay in Italia ed Europa è lungo e di sostanza. Mentre a Gallarate, dove ha sede l’azienda nata nel 2001 con la benedizione di Naomi Campbell e Jennifer Lopez, ne ricopre una fortemente strategica: Head of CSR & Innovation, ovvero capo del dipartimento della Responsabilità sociale d’impresa e dell’Innovazione.
Dottoressa Cimmino, non sembra che lei abbia subito discriminazioni in quanto donna...
«No, mai. E sa come io considero il riconoscimento che ho ricevuto all’esterno? Come una possibilità di potenziare le mie attitudini naturali. La mia famiglia di origine, invece, è tremenda, tremenda...». (sorride, ndr)
Tremenda in che senso?
«Non ho mai avuto una carica apicale in nessuna delle società di famiglia. Nel senso che non siedo nel board. Ma io ho sempre considerato questo maschilismo della mia famiglia in senso positivo: se nella vita non hai un ostacolo non migliori».
Lei è imprenditrice, moglie e madre: sa che l’Italia è ultima in Europa per occupazione femminile e che una donna su cinque si dimette dal lavoro dopo il parto?
«Sul tema sono preparatissima. Mio suocero è pediatra e ci elenca in continuazione le statistiche da quando lui, che ha 85 anni, iniziò a esercitare la professione fino ad oggi: i numeri sono sconcertanti. E le motivazioni sono tante. A differenza di quando io ho iniziato a lavorare e ad avere figli, oggi nella coppia è impossibile condividere un progetto professionale e familiare senza l’apporto di tutti e due. Per un fatto di sopravvivenza. Senza parlare del numero di asili nido, che è a dir poco imbarazzante. E poi orari limitatissimi, sovraffollamento, costi insostenibili. Quando osservo le donne che lavorano in Yamamay raccomando sempre di fare una maternità più lunga possibile».
Imprenditrice illuminata.
«Purtroppo, per quanto le imprese si impegnino in tutta una serie di agevolazioni, a cominciare dal part time, manca un modello di welfare che agevoli le donne. Siamo troppo indietro rispetto al resto del mondo».
Alla Francia, per esempio?
«Quando intervengo ai convegni dico sempre questo: basterebbe copiare un po’ dai nostri vicini, Francia, Svizzera, Germania. Non è che si debbano fare delle pensate molto sofisticate».
Lei ha lasciato Napoli a 31 anni con suo marito Francesco Pinto, presidente di Yamamay, e i figli piccoli per vivere in provincia di Varese: era un cervello in fuga...
«No, in realtà ero in una fase post-universitaria con già un’esperienza professionale in un’azienda che avevo contribuito a costruire con mio padre. Di certo quel trasferimento ha dato la possibilità di esprimerci in maniera più potente rispetto al mercato senza tutte le limitazioni burocratiche e, diciamo, ambientali, del sud. Che ci sia un desiderio quasi inconscio di andare sempre al nord, verso un modello ritenuto più organizzato ed efficiente, è vero. I miei figli, nati a Napoli, quando ci siamo trasferiti avevano 2, 6 e 8 anni: sono andati ancora più a nord, perché dopo le scuole a Busto Arsizio hanno studiato fra la Svizzera e l’Inghilterra. E i primi due, che già lavorano da diversi anni, sono rimasti Oltremanica» .
Sostenibilità è la parola più pronunciata in Italia, oltre a resilienza: quanti sanno cosa significa?
«Recentemente sono stata a una tavola rotonda, a Milano, e all’inizio il moderatore ha proprio detto: cerchiamo di non utilizzare troppo la parola sostenibilità o sforzatevi di trovarne altre. Al che abbiamo tutti convenuto di usare “responsabilità”. In Yamamay abbiamo trasferito i valori in cui crediamo nel piano industriale, e il prossimo sarà ancora più stringente. Da anni il nostro modello di business integra a 360 gradi il rispetto per l’ambiente e il benessere delle persone. Ci crediamo molto».
Intanto il greenwashing nelle imprese va sempre più di moda...
«Lo noto soprattutto in relazione ai prodotti: basta che abbiano qualcosina di sostenibile e il gioco è fatto. Ma vedo anche tanto socialwashing: pur di apparire quello che non si è vengono narrati racconti non veri e privi di un impegno sociale concreto».
Dia un consiglio alle ragazze.
«Studiare tanto e il più possibile, perché attraverso lo studio di qualità si raggiungono tutti i traguardi. Servono tanti sacrifici e tanto impegno».
Nessuno dei suoi figli è in azienda: tengono le distanze dai genitori?
«In base ai patti parasociali i figli non potranno entrare in azienda prima del 2026: ci sono altri soci e siamo tutti d’accordo su questo. Nel frattempo i miei hanno scelto strade indipendenti, che comunque avrebbero dovuto seguire prima di entrare in azienda. Quindi, mai dire mai».
Con suo marito condivide anche l’impegno per la salvaguardia del Mediterraneo: in questa terra di laghi non le manca il mare?
«A bordo della Catamarano One si fanno analisi sullo stato di salute del mare con uno staff di biologi marini. Io stessa ho voluto rendermi utile. Amo tutta la natura e il lago ho imparato a conoscerlo grazie a mio figlio Luciano, che ha spostato una piccola barca da Napoli al Lago Maggiore. La navigazione sul lago mi ha completamente cambiato la prospettiva».
Racconti con tre parole la fondazione, 23 anni fa, di Yamamay.
«Sogno. Credibilità. Responsabilità. Noi avevamo un sogno chiaro e molto ben definito dall’eccellente business plan fatto da Francesco. Io mi sono dedicata alla formazione. Assieme a mio fratello, ognuno per la sua parte, fummo così convincenti da coinvolgere tante persone in questo sogno».
Yamamay affida la sua immagine sempre a bellissime donne, ma oltre il mondo ovattato c’è quello reale: violenze, femminicidi...
«Sono tempi cupi. Attraverso l’associazione “Diana Odv Luisa Romano”, nel nostro piccolo, aiutiamo le donne a rendersi indipendenti dal punto di vista economico, con il lavoro. Crediamo molto in questo. E in tema di influencer in azienda c’è una fase nuova su cui siamo tutti d’accordo: scegliere persone che, quando aprono bocca, abbiano qualcosa da dire».
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