L’INTERVISTA
Federica Brunini e «la bustocchitudine»
La scrittrice di Busto Arsizio: «A mia madre devo la passione per la scrittura»

L’elisir di lunga vita, una vita bilanciata fra concretezza e sogni, si chiama «bustocchitudine». Difficile che l’Accademia della Crusca benedica il neologismo ma per la scrittrice e “Royal watcher” Federica Brunini, 53 anni, il fatto di essere nata a Busto Arsizio non è tanto una questione anagrafica ma esistenziale: «Quando lo racconto alle presentazioni dei miei libri ridono tutti, però è così. La “bustocchitudine” mi ha dato la consapevolezza che alla fine conta la sostanza. Mio padre mi diceva: sì, va bene la poesia, la letteratura, ma alla fine quanto guadagni? Era il suo modo, da bustocco, per dire che la vita è fatta di concretezza. All’epoca gli rispondevo che i soldi non sono tutto nella vita, ma devo dire che quel monito paterno si è poi rivelato molto utile».
Non mi dica che lei, creativa e viaggiatrice, ama l’ex Manchester d’Italia. Insomma, il paesaggio...
«È vero, non siamo stati molto fortunati. Pur vivendo a Milano sono molto legata a questa città, non solo perché ci vivono i miei genitori: avere radici solide aiuta e Busto le radici solide te le dà. Anche per questo apprezzo che qui sia stato valorizzato un patrimonio storico così importante come quello tessile. E dal punto di vista culturale noto uno sforzo titanico. Comunque, quando mi chiedono da dove vengo rispondo sempre Malpensa. Amo la brughiera. E poi era l’aeroporto di Busto Arsizio, no?».
Se il papà le ha insegnato la concretezza, vista la mole di romanzi e guide che ha scritto ci dev’essere lo zampino di sua madre...
«Mia mamma Cecilia, ex insegnante elementare, mi ha insegnato a leggere e a scrivere all’età di 4 anni e mezzo: è a lei che devo tutta la mia passione per la lettura e la scrittura».
I suoi libri sono ad alto tasso di protagoniste femminili ma guai a definirli romanzi femminili...
«Mi piace raccontare le donne contemporanee che ho conosciuto, che vedo intorno a me. Donne che, come qualche critico ha scritto, allargano il catalogo delle “personagge”, nel senso che escono dagli stereotipi. Ma dire che un romanzo diventa “rosa” se la protagonista è una donna no: qualcuno mi spieghi perché i libri di Erri De Luca o Andrea De Carlo non vengono definiti “azzurri”. La letteratura non ha sesso, è letteratura. Punto».
Concetto eversivo, in tempi in cui tutto viene etichettato...
«Tengo spesso lezioni agli studenti, ai quali faccio leggere l’attacco di due libri senza rivelarne il titolo: ad esempio “Orlando” di Virginia Wolf e “Isole nella corrente” di Ernest Hemingway. Poi chiedo se l’ha scritto un uomo o una donna. Risultato? Spesso viene attribuito il libro di una donna a un uomo e viceversa. Nel momento in cui togli l’etichetta e guardi la sostanza non c’è più differenza».
Ha mai subito discriminazioni in quanto donna?
«Ogni giorno, come tutte. No?».
Ogni giorno?
«Per esempio, se una donna va a comprare un’auto o va dal ferramenta viene trattata come un’incapace o con sufficienza, idem quando il tecnico ripara la caldaia di casa. Credo che le nuove generazioni non si pongano più il problema, la differenza di genere è molto meno forte. Ma io che ho più di 50 anni rispondo sì: noto le differenze e mi sono trovata a disagio in tante situazioni lavorative».
Allora è il momento giusto per dare un suo consiglio alle ragazze.
«Dico: meno male che siete ragazze. E usate solo il positivo dell’essere ragazze. Io non credo nelle differenze di genere se non in senso biologico: maschi e femmine hanno gli stessi bisogni emotivi, le stesse potenzialità, lo stesso cuore. Ecco, non vorrei che le ragazze pensassero di valere di meno. Né che i ragazzi pensassero di valere di più, ovviamente».
È il suo consiglio ai ragazzi?
«Anche loro non devono pensare di valere di meno. In realtà consiglio a entrambi di credere in se stessi e di restare fedeli a se stessi. La coerenza con ciò che siamo è l’unica forma di coraggio che abbiamo oggi, in un sistema malato a causa dei social. Ed è anche una forma di felicità».
Lei è una “Royal Watcher”, cioè sa tutto delle teste coronate e in particolare dei Windsor: le è piaciuto il nuovo ritratto di Re Carlo III?
«Moltissimo. Lui è un re di transizione, che ha cambiato il paradigma della madre pur nella continuità di certi valori, e questo ritratto simboleggia tutto ciò: ad esempio c’è il rosso, che è il colore della regalità per eccellenza, ma è un rosso prêt-à-porter. Anche la famosa farfalla di cui si è tanto parlato, simbolo di metamorfosi, rappresenta al meglio la transizione».
Re Carlo e la principessa Kate hanno un tumore: giusto rendere pubblica la loro fragilità?
«Dopo che il re ha dichiarato di essere malato tantissimi uomini hanno prenotato un esame alla prostata. E se Kate ha annunciato di avere il cancro davanti a milioni di persone, il che dev’esserle costato molto, è proprio per mettersi al fianco di chi sta affrontando la stessa battaglia. Del resto, in questi anni Kate Middleton è stata la persona che ha portato all’interno della famiglia reale la capacità di stare con i piedi per terra. È lei la prima vera erede di Elisabetta II».
Si sono pentiti Harry e Maghan di non essere più “Altezze reali”?
«Non credo, entrambi volevano una vita lontana dagli obblighi di corte e dai paparazzi. Però mi preoccupa Harry: lei è tornata a casa sua, lui no. Ma sia chiaro, non voglio colpevolizzare Meghan come si fa di solito».
Parliamo di donne italiane: una su cinque si dimette dopo il parto. E poi l’Italia è ultima in Europa per occupazione femminile.
«Queste cose le sentivo dire quand’ero una ragazzina. Perché continua a succedere? Non ci sono politiche di sostegno per le donne. E perché non ci sono? Non è cambiata la cultura di questo Paese. Mi riferisco alla disparità salariale, ai pochissimi uomini che usufruiscono del congedo di paternità, agli asili con costi esagerati. In più, viviamo in un Paese in cui il part time è quasi un reato e se non sei in ufficio dalle/alle non lavori».
A proposito di lavoro: progetti?
«Per Feltrinelli sto scrivendo un nuovo romanzo che uscirà nel 2025. E a fine 2024 dovrebbe andare in onda su Mediaset una serie tv tratta da “Due sirene in un bicchiere. E poi viaggi e ancora viaggi».
Lei ha fondato la “Travel Therapy” in Italia: in cosa consiste?
«Ho immaginato un mondo suddiviso non per confini nazionali ma per geografia emotiva. Faccio un esempio banale: se sei single non vai alle Maldive, se non sopporti i contrasti non vai in India. Di certo viaggiare non significa piantare una bandierina per dire agli altri che sei stato lì».
Lo diciamo sempre: l’Italia potrebbe essere una Repubblica fondata sul turismo. E invece...
«Parlando di Travel Therapy l’Italia è il Paese della sensualità, è bellissima se sei un turista. Ma poi magari arrivi a Malpensa e non funziona il wi-fi, oppure i treni per laghi e mare sono pochi e strapieni e devi pure obliterare il biglietto, cosa che gli stranieri non sanno e rischiano sanzioni, o mancano i collegamenti pubblici dagli aeroporti “delle vacanze” come Cagliari o Brindisi. Da italiana mi vergogno».
Qual è il suo luogo del cuore in provincia di Varese?
«Il monastero di Torba e quello di Cairate: sono luoghi magici».
Sulle sue email c’è sempre scritto: “Per quanto piccolo, nessun atto di gentilezza è sprecato”. Messaggio eversivo di questi tempi...
«È così. Grazie, prego, scusi, buongiorno: siccome la vedo raramente nella vita quotidiana, considero la gentilezza un atto rivoluzionario».
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