REPORTAGE
Brutti, sporchi e cattivi
Tra le roulotte e le case mobili di via Lazzaretto dove abitano i sinti. Una chiacchierata utile per distruggere tanti pregiudizi e capire cosa vogliono davvero

All’accampamento di via Lazzaretto si arriva tramite una strada piena di buche e pozzanghere che corre a fianco dell’autostrada. Il termine accampamento, per la verità, non è corretto. Si tratta di quella che veniva chiamata piattaforma nomadi ai tempi della sua realizzazione. Era il 2007. Roulotte e case mobili dei sinti dovevano essere spostate da via De Magri perché di lì a poco sarebbe stata inaugurata la prestigiosa sede del Maga. Meglio non avere gli zingari come vetrina della città. Ecco perché fu costruita quell’area con conseguente crisi di giunta che portò all’uscita dell’allora assessore alla Sicurezza, il leghista Giorgio Caielli. Doveva essere una soluzione provvisoria. Ma è diventata definitiva, nonostante ci siano molte cose che non vanno.
Una razza inferiore
All’ingresso dell’area di via Lazzaretto ci sono due donne. Non si mostrano diffidenti. Ce n’è una che scherza subito: «Siamo sinti, siamo singari da Galarà dal tempo della pietra. Qui l’è dura, l’è dura. Dateci il lavoro – entra subito in argomento – e pagheremo le bollette». Arriva un uomo. Si presenta. E’ Alessio Ferrari, ma qui lo chiamano Yuba: «Noi siamo considerati una razza inferiore ma lavoriamo normalmente. Io mi occupo del ferro, come tanti altri. Se viaggio senza formulario però mi sequestrano tutto. Ho 43 anni e sono nato a Busto. C’ho tre bambini e una moglie. Avevo una casa popolare ma mi hanno sfrattato. Per un anno ho dovuto curare mio figlio malato a Brescia. C’era una perdita nel gas e mi hanno chiesto quasi quattromila euro. Non potevo farcela. Così mi hanno buttato fuori».
Non siamo tutti ladri
La moglie prepara il caffè in un container a fianco della casa mobile principale. Si chiacchiera. Una parente, Angela Vinotti, ha la battuta facile. Qui la chiamano Silvana: «La mia origine è di Milan, da Seregno. M’ha scargà lì la mia mama. Lei, invece, è mantovana. Quanti sinti ci saranno in Italia? So nanca quel che ho mangià ier. Ho fatto questa influenza che mi sento tutta rimbambita. Altro che casa mobile, io me ne andrei subito in una casa vera. Signore qui è una vita da can. Ma il cane fa una bella vita, il mangia e il dorma». Ma non la pensano tutti così. «Mi sentivo morire io lì alla Ca’ di Matt – ribatte la moglie di Alessio - mi chiudevo con la porta blindata, perché non mi sentivo sicura». Silvana scrolla la testa: «Se ti racconto la mia storia viene fuori un romanzo che ci guadagni un sacco di soldi». «Poi dividiamo», e ridono tutti. «Perché siamo nomadi tutti ci danno addosso», Silvana non si arrende: «Vedevo una trasmissione sui sinti in tivù e continuavano a dire singheri, singheri, mi veniva voglia di andare lì e spaccargli la faccia, a me mi viene il nervoso quando sento certe cose. Come dappertutto c’è il buono e c’è il cattivo. Non è che i preti siano tutti puttanieri e i carabinieri tut maniachi. Così gli zingari non sono tutti ladri». Come darle torto?
Dio mi ha cambiato la vita
Alessio ha la sua storia da raccontare: «Ho 43 anni e non ho mai rubato una caramella. Da quasi tredici sono convertito a Gesù, sono evangelico. Ho trovato quello che andavo cercando da tanto tempo, quello che ti riempie il cuore». Quasi si commuove quando racconta la sua vita: «Prima andavo in discoteca, bevevo, stavo tre giorni fuori casa ma alla fine mi ritrovavo solo. E il senso della vita cos’è? Mi chiedevo. Adesso basta una semplice preghiera e so dove posso appoggiarmi: al dio vivente». Non è stato facile cambiare vita, non è stata una cosa all’improvviso: «Quelli con cui bevevo, mi dicevano: sei matto? Tanti, però, ora si sono convertiti pure loro. Adesso ho tanti problemi, ma quando grido Dio lui mi risponde». Come quando il figlio appena nato è stato subito male: «Mi hanno chiamato indietro per uno screening, mi hanno parlato di distrofia, che pian piano sarebbe finito in carossina. Ma lì ho visto la mano di Dio. Daniel adesso ha cinque anni, ha sempre carenze di ferro ma cammina». Alessio sogna per lui una sola cosa: «Non vorrei che facesse la mia vita. Ecco cosa vorrei».
Vivere in una casa vera
Cosa chiedono, dunque, i sinti? Cosa vorrebbero quelli che nell’opinione comune sono solo zingari che vivono approfittandosi degli altri? «Mi basterebbe un pezzettino di terra – spiega Alessio - dove vivere ognuno nella propria casa ma dentro una comunità con spazi attrezzati diversamente. Vedi, i sinti sono una grande famiglia. Se hai due dadi per fare la minestra, uno lo dai al tuo vicino. Se ti manca un chilo di pasta, stai sicuro che qualcuno te lo dà». In via Lazzaretto, però, non ci sono le condizioni – a loro giudizio – per vivere come desidererebbero: «Era meglio in via De Magri, era molto meglio là. Qui non c’è niente. I bagni li abbiamo costruiti noi. La strada l’abbiamo fatta noi questa estate». E l’elettricità? «Ci facevano pagare troppo, in via De Magri invece avevamo il forfait». La corrente – per i mancati pagamenti – è stata staccata ma al campo, in qualche modo, arriva lo stesso. Dove ci sono i rifiuti però spuntano i topi. «Abbiamo pulito e fatto una cesta ma l’abbiamo dovuta smontare. Niente, non ci vogliono aiutare».
Tiriamo fuori i documenti
Tra i sinti c’è chi ha davvero perso la pazienza. Uno dei figli di Silvana va subito al sodo: «Se ci danno il terreno, la casa me la faccio su io, non ho bisogno del sindaco. Questa doveva essere una soluzione provvisoria ma ormai che siamo qua chiedo che il terreno lo intestino a noi, abbiamo fatto tutto noi ormai. Solo Gallarate è conciata così. Andate a Padova a vedere. Cosa pago le bollette? Pago la merda che ci danno? Io ho sei figli e vado per ferro per guadagnare qualcosa da mangiare. Cosa volete da noi? Ci volete rovinare? Allora sì, tiriamo fuori i fogli, i documenti e li smerdiamo tutti in Comune».
Se c’era Giovanna Casagrande
Moreno Ferrari ci tiene a far vedere come i sinti tengano bene il campo: «Guarda, se vediamo una carta sulla strada, la tiriamo su. Vai a controllare in altri posti: c’è la merda in mezzo. Facciamo tutto noi. Ci aiutiamo e andiamo per ferro. Ah ma se sapevo che era così non facevo quattro figli perché è troppo dura. Ti dico la verità, te lo dico con il cuore. La piccola fa la quinta elementare, due sono alle medie e il grande ha diciotto anni ma di lavoro non se ne trova. Sono cresciuto a Madonna in Campagna. Noi siamo tutti gallaratesi al cento per cento. Chiediamo solo un piccolo aiuto. Se c’era la Giovanna Casagrande, lei sì che si faceva rispettare dal Comune. Era la mia zia. Invece qui ci trattano come cani».
Vogliamo lavorare, anche a basso prezzo
Walter Tribini è un uomo pacato. Argomenta così: «La cosa che c’interessa di più è il lavoro. Se c’è lavoro si può vivere decorosamente. Noi sappiamo fare tutto e ci sono tanti giovani perché non ci chiama qualche cooperativa, ma non quelle lontane che non ci conoscono, quelle di Gallarate. Noi lavoriamo anche a basso prezzo. Mio figlio ha fatto le superiori. Possiamo curare le rive dei fiumi, pulire le foglie, sistemare i marciapiedi». La realtà, però, è che il lavoro non si trova: «Appena sentono che siamo i sinti di via Lazzaretto, bon, è finito tutto».
Ci trattano troppo male
Potrebbe essere lei, allora, una sorta di capotribù. Colei che ha raccolto il testimone di Giovanna Casagrande. Franca Ferrari, la mamma di Alessio scrolla il capo: «Non è mica vero». È una donnina minuta ma con gli occhi che parlano da soli: è un punto di riferimento, una parola buona per tutti. «La mia storia è troppo lunga. Vivo qua – mostra la sua casa mobile calda e tenuta bene – mangio quel che c’è. Ho quattro figli e quindici nipoti. Ho sempre vissuto in roulotte ma adesso più che mai dico che si dovrebbe vivere meglio, in una casa tranquilla. Ma qui il bello è che siamo tutti parenti. Vorrei una vita migliore per i miei figli che devono mazarsi per tirare sera. Siamo qui in questo posto da dieci anni – sospira – ma c’è un Comune che non vale niente e non ci dà niente. Tre anni fa ho pagato 630 euro di luce e sono stata senza mangiare per trovare quei soldi ma ora non lo farei più perché ci trattano troppo male».
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