LA MOSTRA
Guttuso ritorna a Varese
I quadri della Collezione Pellin in mostra nei prossimi mesi a Villa Mirabello

Renato Guttuso ritorna simbolicamente nella sua Varese con una grande mostra che si terrà nei prossimi mesi.
A illustrare l’iniziativa sono il sindaco Davide Galimberti e l’assessore a Cultura e Turismo Roberto Cecchi che negli ultimi mesi sono stati impegnati a portare a termine questa grande opportunità di rilancio culturale della città, garzie al proficuo rapporto coi rappresentanti della Fondazione Pellin, nata dalla volontà del commendatore Francesco Pellin, estimatore e amico di Renato Guttuso.
La Fondazione custodisce una vasta collezione di rilevanti opere dell’artista e in queste ore �è stato raggiunto un accordo con il Comune di Varese.
Di seguito pubblichiamo un intervento di Gianni Spartà.
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Da collezionista d’arte, Francesco Pellin se n’era andato con un cruccio d’impotenza nel 2009, lui che da industriale aveva realizzato l’inverosimile: una fabbrica di salmoni affacciata sull’autostrada più intasata e inquinata d’Italia.
Non era riuscito a trovare qualcuno che nel Palazzo gli spianasse la strada per costruire a Varese, città amata, un museo moderno al quale conferire in comodato duraturo il tesoro di famiglia: 150 opere di Renato Guttuso.
«Papà è morto amareggiato», confidò il figlio Beniamino al cronista amico che con articoli e interviste aveva tentato invano di svegliare i dormienti. Anzi i contrari.
Immaginiamo che la notizia di una mostra organizzata con parte di quei quadri a Villa Mirabello farà sorridere lassù non solo il “ragazzo di Borsano” diventato re dei grand gourmet, ma anche il maestro di Bagheria che sotto il Sacro Monte aveva trovato occasionalmente il suo rifugio dell’anima.
La celebre “Vucciria” fu concepita nell’atelier di Velate per una trentina d’anni visitato dalla migliore intelligenza italiana e no: Edoardo De Filippo, Gian Maria Volontè, Pablo Neruda, Audrey Hepburn.
Vi chiederete che cosa c’entri l’arte d’importare pesce nobile dal profondo Nord e di affumicarlo in riva all’Olona, con la passione per il Grande Siciliano. Non c’entra niente. Ma per l’imprenditore Francesco Pellin, Renato Guttuso fu una sorta di folgorazione. Come un mecenate rinascimentale, lo frequentò a Varese e a Roma, acquistò i suoi quadri, tra i quali il celebre “Spes contra Spem”, quel conturbante nudo di donna (non è la Marzotto) davanti alle persiane della villa di Velate aperte sul panorama del Monte Rosa.
Ne nacque un’amicizia solida e quando il pittore si fece convincere dall’arciprete Pasquale Macchi a dipingere una “Fuga in Egitto” mediterranea alla Terza Cappella, trovò in Pellin un sostenitore, anzi un complice, considerate le polemiche sollevate dai difensori dell’ortodossia secentesca della Via Sacra.
L’industriale volò a San Francisco e procurò i colori acrilici con i quali Guttuso, assistito da Amedeo Brogli, avrebbe dipinto un San Giuseppe con la faccia da fedayn.
Che cosa è cambiato, che cosa ha riacceso improvvisamente una memoria perduta, perché rinasce interesse verso un maestro del Novecento, comunista e ateo fino alla conversione in punto di morte, testimoniata tra gli altri da Giulio Andreotti?
Innanzitutto è cambiato l’atteggiamento del figlio adottivo Fabio Carapezza: egli non aveva gradito i movimenti autoreferenziali di una Fondazione Guttuso nata qui vent’anni fa per onorare un personaggio proclamato solennemente varesino onorario. Salvo intitolargli in un recesso di Velate un viottolo a fondo chiuso frequentato da cani in libera minzione.
Ci pensò il sindaco Attilio Fontana a cancellare l’oltraggio, peggiore dell’oblio. Poi è cambiato il clima politico e culturale: l’assessore Roberto Cecchi ha drizzato le orecchie quando gli raccontarono che cosa era stato per Varese Renato Guttuso. E col meglio del suo staff ha ripreso in mano la pratica, come si dice in gergo. Alleluja.
Quanta passione nei tentativi di Pellin di convincere sindaci o assessori a radicare a Varese il suo patrimonio artistico. Quanti “sì” che diventavano “no” e quanta voglia di realizzare altrove il suo disegno. Ma prevaleva l’attaccamento a questa terra e Francesco ci riprovava, aspettava, s’illudeva. La collezione fu esposta a Milano nel 2005, a Pontassieve nel 2007.
Da allora ha fatto altri giri. Grande successo sempre, non sufficiente, tuttavia, a compensare il languore, la sensazione penosa di vuoto locale. Non fosse stato per la provocazione artistica e religiosa di don Pasquale Macchi, nulla resterebbe a Varese di un illustre, trentennale villeggiante. Ricordiamo la sua voce rauca tra le foglie morte di un autunno precoce a Velate: «Mi piacerebbe che la gente di qui, che ho amato quanto i miei conterranei, non si dimenticasse di me».
Lo stanno accontentando. Auguri.
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