LA TRAGICA PIAGA
I femminicidi e il fiume di sangue da fermare
Il delitto della escort di Legnano allunga una sequenza impressionante. Le pene, la prevenzione, la cultura
Una sequenza impressionante di delitti che, destino maligno, arriva proprio nel momento in cui il Governo illustra (dopo averlo deliberato) il disegno di legge sul femminicidio. Un fiume di sangue che scorre, da Nord a Sud, molto più copioso dell’inchiostro che prevede il reato autonomo e specifico dell’uccisione di donne in quanto donne. Nel fine settimana, il caso a Legnano della 35enne romena, Vasilica Potincu, stroncata da nove coltellate. Poi, mercoledì, l’orrore della 14enne di Napoli massacrata dall’ex fidanzato, diciottenne, e la sessantenne della provincia di Torino, di professione maestra d’asilo, ammazzata dal marito. Questa la sequenza. La drammatica contabilità dei femminicidi dall’inizio dell’anno è in continuo aggiornamento e già a quota 30 casi (dato variabile visto che la stessa definizione di femminicidio è controversa). Le panchine rosse, le scarpe rosse, le manifestazioni e i convegni si scontrano con una realtà che non cambia, anche se c’è chi osserva che i numeri delle tragedie sono in leggero calo.
LE PENE E LA PREVENZIONE
Il reato di femminicidio, che prevede l’ergastolo senza sconti e la custodia cautelare in carcere per chi viene arrestato con questa accusa, avrà davvero l’efficacia di fermare i coltelli, le pistole, i bastoni, i martelli e le pietre? Secondo alcuni operatori del diritto no. Servirebbe una maggiore opera di prevenzione. Sì, ma come? Già il nostro ordinamento, con le nuove norme del codice rosso, si mostra tra i più attenti a livello europeo nella difesa preventiva delle vittime. La risposta che non riusciamo a dare è perché si uccide la donna con cui si vive o si è vissuto a lungo, la ragazza che si desidera, la persona che (questo potrebbe essere il movente del delitto di Legnano) diventa un’ossessione al punto da decidere di eliminarla “se non la si può avere nel modo immaginato”. Psicologi e psichiatri sono al lavoro per formulare diagnosi. Si cercano spiegazioni nei fattori culturali e sociali. Non sempre le si ottengono. Questi fenomeni abominevoli, della forma più disgustosa di disprezzo della vita umana, irrompono anche in contesti non disagiati.
L’INDIVIDUALISMO
Non sarà allora che l’individualismo stia prevalendo su tutto il resto? Nella mente dell’omicida, così come in quella dello stalker, comanda infatti l’egoismo di non accettare un no, un rifiuto, un abbandono, giustificando così il ricorso a misure estreme. Quando la rabbia valica il livello di guardia, purtroppo non c’è timore dell’ergastolo che possa contenerla. Non è una resa questo ragionamento. È una presa di coscienza (assente negli autori di femminicidi). Aiutiamo allora, aiutiamoci nell’educare al rispetto, alla rinnovata capacità di stare insieme, alla serena consapevolezza che i rapporti non sempre devono andare come li vogliamo. “Se mi lasci ti uccido” è orribile da sentire anche quando, per fortuna, il proposito non si compie. L’idea di avere il potere sull’altra è una convinzione che nemmeno nelle caverne poteva avere un senso. “Persona uguale cosa” ci fa piombare nella giungla. Che poi, a dire il vero, gli animali, per ragioni di sopravvivenza, sanno cooperare anche tra specie rivali.
CULTURA PRIVA DI PREPOTENZA
Non arrendiamoci. Le iniziative contro i femminicidi devono insistere nell’affermare una cultura priva di prepotenza e onnipotenza. Varese ospita un ciclo di incontri (il primo sabato scorso) dedicato alla rete che si attiva per difendere, subito, le potenziali vittime. Ieri sera, sempre a Varese, nel Salone Estense, un convegno sulle disparità di genere e come superarle. Bisogna insistere. Anche quando non arriva la risposta al perché si arriva ad uccidere. Forse perché non c’è. E non ci può essere.
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