Il corpo non è celluloide. Silvia con Jane Fonda
La varesina Bottini nel docufilm in concorso a Los Angeles. «Attenzioni fuori luogo? Sì, anche a me sono capitate quando lavoravo in Italia»

Da Malnate a Burbank c’è un oceano e un’America intera da attraversare ma quando il sogno che insegui da una vita non smette di pungere il cuore, ecco che ogni distanza diventa un punto di vista. O, in questo caso, un’inquadratura da film.
L’oceano che sta attraversando Silvia Bottini ha poco a che fare con l’Atlantico e molto invece con le asperità che attendono chi vuole trasformare la propria vocazione artistica in vita vissuta.
La sua vocazione, dai 13 anni in poi, è quella di essere attrice. Per questo ha mosso i primi passi da liceale cairolina sotto l’ala di Anna Bonomi e di Silvio Raffo - «con Sylvius mi sento spesso», confida - e ha cominciato a credere nel suo cammino guidata da un’altra profvaresina, Antonella Visconti, «che mi concesse - aggiunge - la parte di Elena nel mio primo A Midsummer Night’s Dream: le sono debitrice per tutta la vita perché è con lei che ho capito che recitare non era solo un sogno di mezza estate».
Domenica, quando per mamma Ornella e papà Fabrizio sarà già un altro lunedì malnatese - Silvia attraverserà il red carpet di Los Angeles per la proiezione diBody Parts, docufilm nel quale è stata chiamata a recitare accanto a stelle quali Jane Fonda e Rosanna Arquette. L’occasione è il festival losangelino dell’American Film Institute, che proprio domenica vivrà la serata finale.
Body Parts, un titolo da Sci-Fi Horror già utilizzato da Eric Red nel 1991...
«Vero. Ma questa volta il genere è del tutto diverso, visto che si tratta di un documentario. E sebbene vi sia un certo riferimento all’orrore non è certo a quello indotto dal mix con la fantascienza, bensì dalla realtà. L’uso e l’abuso del corpo di chi recita scene intime, dalle riprese fino alle produzioni».
Un tema attuale, a maggior ragione dopo il caso Weinstein (Henry, patron della Miramax col fratello Bob, è stato condannato nel 2020 a 23 anni di carcere per stupro e violenza sessuale, ndr).
«Certamente un tema sociale molto sentito negli Stati Uniti più che altrove...».
Allude all’Italia?
«Anche, ovviamente».
Le è mai capitato, sul lavoro, di subire attenzioni fuori luogo?
«Sì e non una volta sola e mi sono sempre difesa pagando un prezzo, cioè rinunciando a parti finite poi ad altre più o meno illustri colleghe».
Parti teatrali o cinematografiche?
«Nel mondo del cinema sono più frequenti, perché l’industria cinematografica muove più soldi e va in parallelo coi metodi loschi coi quali certi politici fanno la propria fortuna. Perché non va mai dimenticato che in Italia il sostegno pubblico alle produzioni cinematografiche è quasi sempre vitale per l’uscita, prim’ancora che per la buona riuscita, di un film».
E negli States?
«Qui è diverso. La tutela di attrici e attori sul set è tale che sono state create apposite figure professionali, come l’intimacy coordinator, una figura tra lo psicologo e l’esperto di diritto, cui spetta d’intervenire, durante le scene di sesso, ogni qual volta il regista o chiunque altro del cast, si spinga oltre il copione».
Questo sul set. Ma l’abuso del corpo comincia quasi sempre con una violenza più subdola, legata all’esercizio di un potere.
«Vero. E lo è tanto più quando questo potere nasce da una concezione arcaica della società. Negli Stai Uniti le prime ribellioni anche sul set a questa deriva sono cominciate negli Anni Sessanta, con le rivendicazioni femministe ma solo alla fine degli Anni Novanta personaggi del calibro di Jane Fonda hanno trovato il coraggio di denunciare abusi. L’Italia che ho lasciato sette anni fa era ancora parecchio indietro».
Jane Fonda spiegò: «Spesso mi sono sentita sminuita e alla fine ho deciso che non potevo smettere di essere me stessa per compiacere l’uomo con cui stavo».
«Trasposto nella trafila lavorativa di un attore, che va dalla scelta di un agente, alla trafila dei provini, al set e alle meno evidenti dinamiche della concorrenza quando si tratta dei concorsi, quel che sostiene Jane Fonda e con lei molte altre, tra cui la regista di Body Parts, ovvero Kristy Guevara-Flanagan, docente alla School of Theatre, Film and Television dell'UCLA, assume i connotati di un paradigma».
Quale parte ha in questo docufilm?
«Abbiamo girato due distinti momenti: una scena recitata e un’intervista, per meglio focalizzare le situazioni e fare così emergere questo delicatissimo ma fondamentale aspetto del lavoro dell’attore».
Lei ha studiato recitazione a Bologna, ha mosso i primi passi col Teatro della Tosse di Genova, è stata diretta per piccole parti da Marco Bellocchio e dal varesino Giacomo Campiotti. Come va a Hollywood?
«A Burbank, per la precisione. Hollywood è la scena per i turisti. Qui invece ci sono gli Studios principali e vivo in affitto col mio compagno, nonché traghettatore oceanico, Matteo Ghidoni: vivevamo a Milano, poi lui si è trasferito qui per lavoro (è giornalista, ndr) e insieme ai nostri due gatti viviamo quest’avventura americana. Sul fronte del lavoto, passato il lockdown, va meglio: sono stata protagonista in due corti, doppiatrice per una serie spagnola su Netflix, collaboro con Fondazione Italia e sto vagliando un paio di proposte. Nel frattempo insegno teatro ai bambini e sto facendo un lavoro di ricerca su Eleonora Duse. Mi piacerebbe farla conoscere anche qui».
Il modo migliore sarebbe un film da Oscar.
«Senza dubbio. Vorrebbe dire che il sogno ne ha assorbiti altri ed è diventato realtà».
Nostalgia di Varese?
«Come non averne? La lontananza la acuisce, poi però quando ritorno - e non accade da tre anni - se non fosse perché spunta sempre qualche nuova rotonda, la troverei sempre uguale a quando sono partita. E mi sento a casa».
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