L’INTERVISTA
«Inimitabile Santuccio»
Umberto Orsini, protagonista domani nella Città Giardino con il pirandelliano “Giuoco delle parti”, ricorda il compagno d’arte in un “Servo di scena” da applausi

«Recitare a Varese ha per me un significato particolare perché è la città di Gianni Santuccio, compagno d’arte e amico del quale, anche se è scomparso ormai quasi da trent’anni, parlo spesso e volentieri a chi recita con me. So che gli avete intitolato un Teatro, giusta scelta, lo meritava».
Così Umberto Orsini, che domani sera sarà al Teatro di Varese Openjobmetis ne “Il giuoco delle parti” di Luigi Pirandello. Con l’attore di Clivio, Orsini fu impegnato nella tournée di “Servo di scena”, il testo di Ronald Harwood nell’allestimento - il primo in Italia - curato da Gabriele Lavia.
«Fu un grande successo ma Gianni non se ne curava, non dava importanza a questo aspetto. Assolutamente inimitabile. Ad altri attori, come lui meno giovani di me, con i quali ho diviso il palco sono riuscito, osservandoli attentamente, a carpire qualcosa, a lui, no».
Perché inimitabile?
«Un episodio lo spiega meglio di altri. Gianni era un grande attore ma dal rendimento non costante. Capitava anche qualche data sottotono. Una sera, prima della rappresentazione, mi dice che in platea ci sarà anche una prostituta che ha conosciuto pochi minuti prima per strada. Spiegandogli che era un attore e invitandola a teatro; felice che lei avesse accettato. Bene, quella volta Santuccio recitò come non lo avevo mai e non l’avrei più visto recitare. Straordinario, credo che lo stesso Giorgio Strehler, che lo aveva diretto in varie occasioni al Piccolo, ne sarebbe stato entusiasta. Di certo lo fu il pubblico che non seppe mai che lui aveva in realtà recitato, in modo superbo, per una sola persona».
Eppure sosteneva che l’attore perfetto fosse quello orfano e sterile.
«Una frase che ripeteva spesso. Ovviamente una forzatura per sottolineare come sul palco si debba andare a mente sgombra. Avendo come unica preoccupazione quella di concentrarsi sul personaggio che si interpreta».
Com’era lontano dal palco?
«Una bella persona, era piacevole sedersi a tavola con lui dopo lo spettacolo. Anche perché con il resto della compagnia ci siamo permessi di fargli uno scherzo innocente».
Che tipo di scherzo?
«Santuccio di vini non capiva nulla ma pretendeva di farlo. Al termine della rappresentazione andavamo tutti insieme a mangiare fuori da qualche parte. Stanco di un siparietto che si ripeteva ogni sera, avevo preso le mie contromisure. Prima delle ordinazioni andavo in cucina e spiegavo: “Il signor Santuccio chiederà del vino, lo assaggerà e vi inviterà a riportarlo via in cambio di quello genuino che bevete voi. Assecondatelo e limitatevi a versare il vino che ha rifiutato in un’altra caraffa. A quel punto lui sorseggerà e dirà: questo sì che è vino”. Così andarono le cose, ripetendosi con regolarità fino all’ultima data della tournée. Scherzi e piatti a parte, quelle cene erano anche di lavoro: un momento in cui ci si confrontava con serenità correggendo gli errori in modo da non ripeterli nella replica successiva».
Si vendicò mai?
«In vita no. Dopo la sua morte, fidandomi di un suo consiglio, feci Il misantropo di Molière. Ero al Nuovo di Milano e il pubblico scarseggiava. Alzai lo sguardo al cielo come a dire “Gianni mandami qualcuno”. Bussarono al camerino, erano amici suoi che mi chiedevano degli omaggi. “Paganti, Gianni, li volevo paganti”, pensai ridendo.
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