LA RACCOLTA
La seconda possibilità per 101 canzoni
Fabio Avano racconta la storia dietro alle grandi opere degli anni ‘90

Centouno perle discografiche degli anni Novanta (di cui «almeno 85 indispensabili») dimenticate, spesso incomprensibilmente. Sono le storie raccontate album per album dal giornalista e critico musicale Fabio Avaro nel suo nuovo libro All’ombra dei Nirvana, edito da Arcana, che presenterà alla Ubik Varese di piazza Podestà sabato 24 alle 18 in dialogo con Francesco Brezzi. Il volume esplora le occasioni sfumate di un decennio musicale trasformato dal successo di Nevermind dei Nirvana, ripescando racconti e sonorità meritevoli di una genuina riscoperta.
«Ho scelto 101 album rappresentativi, non necessariamente i migliori – spiega Avaro –, che hanno rappresentato sia su major sia su etichette indipendenti le mancate next big thing. Mi sono accorto di quanta roba buona ci fosse e quindi ho fatto un’introduzione che ripercorre come si è arrivati ad abbattere il muro tra multinazionali ed etichette indipendenti. Dopo il 24 settembre 1991, giorno dell’uscita di Nevermind, le major si sono gettate in una ricerca spasmodica, nel tentativo di ricreare un fenomeno che per sua stessa essenza non è replicabile. Ho scelto una serie di album di generi differenti, grunge ma anche crossover, post-hardcore, alternative e attraverso la loro analisi e contestualizzazione ho spiegato perché e come sono nati questi generi, che non sono stati supportati come dovevano e quindi non hanno avuto una vera possibilità». Numerosi gli aneddoti. «Mi viene in mente un gruppo classic rock/alternative, i Four Horsemen, il cui disco Nobody Said It Was Easy è uscito nel ’91 prodotto da Rick Rubin. Siccome il cantante faceva dentro e fuori di galera, parte del disco l’ha registrato cantando nel telefono della prigione. Come occasione mancata clamorosa cito i Sweet Lizard Illtet. Hanno fatto un album omonimo nel ’92. Ci siamo trovati in mano questo disco recapitato dalla Warner, un disco crossover veramente pazzesco. Erano un quintetto di Los Angeles che mischiava dub, heavy rock, psichedelia, funk. Un disco incredibile dopo il quale non si è più sentito nulla.
Se dovessi citare un altro gruppo più classico, direi i texani Mother Tongue. Nel ‘94 hanno fatto su MCA un disco di psichedelia dura figlia di 13th Floor Elevator. Ma dico sempre a chi sarà interessato al mio libro di non fidarsi di quello che dico ma di andare ad ascoltare gli album, perché davvero ce n’è per tutti i generi». Analizzati attraverso una lente storica, aspetto che al di là del fascino tuttora vivo per i Nineties sta mancando di fronte a tendenze di ascolto ormai liquide: «I ventenni di oggi sentono ancora vicine le band degli anni Novanta come Nirvana o R.E.M perché vengono ancora molto sponsorizzate. Le piattaforme online hanno però cancellato la storia: un ragazzo di oggi non riesce a comprendere perché Billie Holiday si trova insieme a, che ne so, Merzbow: rumore o mainstream non gli interessa.
Oggi ci sono tantissime cose belle, però la critica non fa più tempo a costruire un genere o un fenomeno, e quindi vagano nell’oceano di un magma senza forma, una specie di passato, presente e futuro che vive simultaneamente e che è un nuovo modo di fruizione, non voglio dire peggiore o migliore».
© Riproduzione Riservata