L’ADDIO
Uboldi, il cinema fermo e i ricordi
Le testimonianze di chi ha conosciuto il pittore, varesino di adozione, scomparso lunedì a 83 anni

«L’ho sempre considerato come artista, un maestro e come persona, un uomo di pace».
Questo il ritratto tracciato da Giorgio Vicentini di Alessandro Uboldi, l’apprezzato pittore, nato a Milano, varesino d’adozione, scomparso lunedì a 83 anni. «Abitava in via San Francesco, era facile vederlo in centro. Sempre disponibile, chiacchierava volentieri ma evitava contrasti inutili. Non perché a tutti i costi accondiscendente, aveva le sue ferree convinzioni, ma perché la sua era una vita sempre in battere, mai in levare. Più di ogni altra cosa a colpirmi era il suo ridere in silenzio».
IL CINEMA FERMO
Tra le sue intuizioni quella di intendere la pittura come cinema fermo. «Uboldi - osserva Manuela Gandini, critico d’arte contemporanea conosciuta a livello nazionale - rappresenta l’avanguardia, l’arte colta ma anche pop. È una parte sostanziale dell’idea di Novecento. Un artista mite e prolifico, accumulatore seriale di immagini di film fermate, catturate, ingigantite e manipolate. La sua percezione della realtà, simile a quella ossessiva di Enrico Ghezzi, passa attraverso la rappresentazione cinematografica perché il cinema è magia e desiderio e lui ne è stato sempre ammaliato, ma in modo diverso da Mario Schifano. Attraverso un processo concettuale, Uboldi ha tradotto i frammenti della società dello spettacolo in opera, restituendo al pubblico la familiarità dei film che accompagnano l’esistenza. Lo ha fatto in seguito anche con i ritratti dei filosofi, creando una sorta di enciclopedia visiva dello scibile umano. Un’immagine fuori fuoco, un frammento di vita, un movimento beffardo accompagnato da un titolo ironico e dal contorno dentellato della pellicola. Alessandro era amico di mio padre e mia madre, Tino e Milli Gandini, ed è così che ci siamo conosciuti e frequentati all’inizio degli anni Duemila anche con Silvia, sua moglie. In quel momento sono nati dei progetti come la personale allo Spazio Erasmus di Milano, i testi scritti da me e da Achille Bonito Oliva, le mostre collettive e poi gli incontri nella sua casa studio. Insomma ci si vedeva e si parlava di politica, mercato e visioni del mondo, con del buon vino, idee brillanti, utopie e un atteggiamento che tutto sommato si potrebbe ancora definire progettuale».
GLI AMICI
«Per la mia famiglia - dice Giovanna Brebbia, figlia del filmaker Gianfranco - Sandro era L’Uboldi. Così lo chiamava mio padre - a sua volta chiamato Il Brebbia - suo amico negli anni Sessanta, quando frequentavano insieme le manifestazioni artistiche con Aldo Ambrosini, Franco Ravedone ed altri artisti. Dopo la scomparsa di mio padre, lo incontrai nuovamente nel 2014 in occasione di un’intervista preziosissima per la ricostruzione della biografia artistica di mio padre. Fu un incontro piacevole e molto importante perché Sandro, oltre a raccontarmi aneddoti e fatti accaduti allora, mi regalò, generosamente, un testo di Sirio Luginbühl, dono indispensabile per la ricostruzione della filmografia completa di Gianfranco Brebbia. Gli regalai una copia di un film sperimentale realizzato nel 1969 da mio padre, e a lui dedicato, dal titolo Deserto in luce solare».
«AVREBBE MERITATO MAGGIORE ATTENZIONE»
«Non me la sento ancora di parlare - spiega Maud Giaccari che era ai funerali di Uboldi nella Basilica di San Vittore con molti artisti - lo farò quando proietterò un filmato di Alessandro girato da Luciano Giaccari. Mi limito a dire che un artista così avrebbe meritato maggiore attenzione da parte di Varese».
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