L’INTERVISTA
«In Afghanistan le donne non esistono. Mia madre voleva facessi il kamikaze»
Walimohammad Atai, 28 anni, lancia il suo Sos da Busto Arsizio dove ha fondato l’associazione “Free Afghan Women Now”

«Immagini se da un giorno all’altro non potesse più uscire di casa vestita come vuole, se le vietassero di lavorare o di studiare o se suo marito la picchiasse perché ha messo troppo sale nel cibo...». L’afghano Walimohammad Atai, 28 anni, lancia la sfida ben conoscendo la risposta. Inimmaginabile. Eppure in Afghanistan, pianeta Terra, questo accade tutti i giorni. «Chi parla più di noi? Non interessa a nessuno», sbotta “Wali” nel suo italiano quasi perfetto: «Anzi, l’Afghanistan interessa solo a chi vuole fare business». Eccome, se interessa: posizione strategica in Asia Centrale e sottosuolo con giacimenti minerari del valore di mille miliardi di dollari. Il che, secondo un’equazione apparentemente contraddittoria, colloca il Paese fra i più poveri del mondo. «Invece potremmo essere uno dei più ricchi», fa notare questo cittadino italiano dal nome impronunciabile, fuggito all’età di 13 anni da una provincia afghana dove si divertiva con gli amichetti a lapidare le donne, sbarcato in Italia a 17 dopo varie peripezie («Ci ho messo tre anni con l’aiuto dei trafficanti») fra Iran, Turchia, Grecia, e dal 2021 residente a Busto Arsizio, dove vive con la moglie: «Ci siamo conosciuti al telefono, sono andato io a prenderla a Teheran...». Lei si chiama Homaira Ebad. Sa di essere stata strappata a un futuro senza futuro, dato che i talebani considerano l’essere umano femminile peggio di un oggetto, una nullità. Fra poco compirà 24 anni, alla sua età in Afghanistan sarebbe già stata “usata” per fare almeno una decina di figli. E guai a portare in grembo una femmina.
Walimohammad, perché i talebani odiano le donne?
«Non solo i talebani. Qualche settimana fa è accaduto un fatto orribile, me lo hanno raccontato amici che abitano nel mio villaggio: una ragazza, sposata da poco, picchiata dai suoceri perché dall’ecografia hanno scoperto che aspettava una femmina. L’hanno picchiata così tanto che, arrivata in ospedale, tre ore dopo è morta. E al figlio i genitori non hanno detto “abbiamo sbagliato” ma “ce ne siamo liberati”».
E il marito della ragazza?
«Niente, tutto normale. Diceva la mia nonna paterna, colei che mi spinse a fuggire dall’Afghanistan tanti anni fa, che mentre in Occidente si usano i sex toys per soddisfare i propri desideri in Afghanistan si usano le donne, che diventano giocattoli nelle mani dei mariti. Ecco perché dico che ormai la colpa non è solo dei talebani ma della stessa società afghana, ormai contaminata dal radicalismo, che non considera più la donna un essere umano. La usi e, se non ti piace, la getti e ne prendi un’altra».
Lei invece è un musulmano femminista. Ha fondato l’associazione “Free Afghan Women Now”: Liberiamo le donne afghane adesso. Un’utopia, non crede?
«È una goccia nel mare, ma con il nostro piccolo aiuto cerchiamo di diffondere fra le giovani donne un’idea di libertà sconosciuta che fa paura anche a loro: non siete oggetti, siete persone. Si fa molta fatica a raggiungerle, è pericoloso, ma attraverso Internet siamo riusciti a inviare libri in pdf e a fare corsi di alfabetizzazione. Il fatto è che buona parte della popolazione la pensa come i talebani. Loro dicono che la donna deve uscire due volte nella vita: quando si sposa e viene portata a casa della famiglia del marito e quando muore e il padre se la riporta a casa per seppellirla».
È chiaro, le donne fanno paura perché ritenute più intelligenti...
«Esatto. I talebani sanno che, se fossero lasciate libere di istruirsi, di uscire e di lavorare, le donne sarebbero in grado di rovesciare il sistema. Se una donna invece rimane ignorante la prima cosa che può insegnare a un figlio è di mettersi al servizio dei talebani e imbracciare un kalashnikov, considerando la violenza un valore per farsi strada. È la stessa ambizione che mia madre, analfabeta, aveva per me».
E cioè che facesse il kamikaze.
«Per lei era normalissimo che frequentassi la scuola jihadista e che un giorno mi sarei trasformato in una bomba umana. Avevo 8 anni. Le era stato fatto un lavaggio del cervello fortissimo. La mia morte sarebbe stato l’evento più importante della sua vita, una festa».
Non le ha mai chiesto perché voleva che si facesse esplodere?
«Non ne ho mai parlato, sapevo che se avessi fatto certe domande si sarebbe offesa e non mi avrebbe più considerato come suo figlio. Di certo la risposta sarebbe stata: è così anche nelle altre famiglie, tutte le mamme sognano i loro figli maschi felici fra le braccia degli angeli».
Tutto questo accadeva quando lei aveva 8 anni. A 13 era già in fuga verso Ovest: come mai?
«Al funerale di uno zio conobbi per la prima volta la mia nonna paterna - neurologo, è morta due anni fa - e da quel momento in me cominciò il cambiamento. Fu lei a spingermi a lasciare l’Afghanistan nel 2011, convinta che non vi fosse futuro. Aveva ragione. Se non l’avessi incontrata avrei fatto il kamikaze».
E invece si è laureato in relazioni internazionali all’Università di Pavia e lavora per i Tribunali.
«Sbarcato in Puglia a 17 anni, sono stato trasferito in una comunità per minori non accompagnati e poi in un centro per adulti. Ho avuto l’opportunità di lavorare come mediatore culturale. Nel frattempo studiavo per laurearmi, triennale e magistrale. Nel 2021 mi sono stabilito in provincia di Varese. Unico cruccio: l’integrazione. Mai faticato così tanto come a Busto Arsizio. Saranno i tratti somatici, le origini, ma ho l’impressione che ci tengano a distanza. Capita a mia moglie, ai miei amici. In tre anni con il Comune non siamo riusciti a fare un’iniziativa sulle donne afghane. Così ci spostiamo a Dairago, con l’associazione facciamo tutto lì».
Per ragioni di sicurezza meglio non approfondire: le chiedo solo quali notizie le arrivano dai suoi contatti in Afghanistan.
«La maggior parte delle persone che conosco sta morendo di fame. Via Telegram o email mi dicono che non vedono l’ora di uscire dall’inferno. Amici che insegnavano all’Università con uno stipendio di 1.500 dollari al mese sopravvivono vendendo verdura per strada: dopo l’abbandono degli americani e il ritorno dei talebani, nel 2021, non hanno più potuto insegnare. Conosco medici, ingegneri, piloti, ex militari dell’Esercito che sono ridotti allo stremo: i talebani li accusano di non aver collaborato e li hanno cancellati. Come fanno con le donne. In Afghanistan non c’è più vita, parecchi stanno cercando di scappare, ma questo non interessa all’Occidente. Cos’altro deve accadere?».
Notizie dagli amici con figlie?
«Già a 12 anni hanno il divieto di uscire di casa non accompagnate, ovviamente solo con il burqa. E non possono studiare. Anche la nostra associazione non può più aiutarle sul posto con i volontari, perché è stata chiusa. Il loro destino è fare 12/13 figli ed essere picchiate dal marito, se non uccise. La gente pensa che tutto l’Afghanistan sia Kabul, invece è composto da 34 province soprattutto montuose e in molte zone non arriva l’elettricità. Nulla è cambiato rispetto a quando io da bambino aspettavo la chiamata dalla moschea per lapidare le donne».
Anche lei?
«Non vedevamo l’ora di sentire le loro urla, era un gioco. Con i miei amici raccoglievo i sassi e li mettevo sotto il cuscino in attesa di lanciarli contro le condannate a morte: avremmo ricevuto 300 benedizioni da Dio. È così anche oggi».
Crede che un giorno finirà questo orrore?
«Basterebbe portare l’istruzione, non la violenza, ma ai grandi poteri non conviene perché in Afghanistan c’è l’oro, l’uranio, il petrolio, i lapislazzuli, di tutto, ed è bene che il popolo rimanga nell’ignoranza. Con il governo talebano fanno affari la Cina, l’Iran, la Russia, che così lo legittimano e lo finanziano. E con i talebani gli americani hanno fatto gli accordi di Doha del 2021, diventando da un giorno all’altro da nemici ad amici. L’Occidente è rimasto a guardare. Me lo chiedo anche io: quando finirà questo orrore?».
«Chi insegnava all’università vende verdure per strada: i talebani non li fanno lavorare»
Il presidente dell’associazione “Free Afghan Women Now” era destinato
a fare il kamikaze
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