IN AULA
Lidia Macchi: la seconda verità
Domani il processo d’appello per Stefano Binda, condannato all’ergastolo per il delitto di 32 anni fa

Vigilia del processo d’appello a Stefano Binda. Si riparte dalla sentenza del 24 aprile di un anno fa con cui la Corte d’assise di Varese ha condannato all’ergastolo il 51enne di Brebbia per l’omicidio di Lidia Macchi il 5 gennaio 1987.
Per ora sono due, a cominciare da quella di domattina, giovedì 11, le udienze fissate a luglio davanti alla prima Corte d’assise d’appello di Milano.
Molto probabile che ci possa essere un’appendice dopo l’estate. Tutto dipenderà se saranno accolte o meno le richieste contenute nelle 211 pagine dell’atto d’impugnazione scritto a quattro mani dagli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, i difensori dell’ex amico della studentessa di Casbeno - il cui corpo fu trovato lungo il ciglio di una strana nei boschi del Sass Pinin a Cittiglio la mattina del 7 gennaio di 32 anni fa - allo stato sottoposto a custodia cautelare dal 15 gennaio 2016.
Che cosa chiede il collegio difensivo di Binda? Molto sommariamente, che i giudici di appello dispongano una doppia perizia super partes, merceologica e grafologica, sulla lettera ricevuta dai genitori di Lidia il giorno del funerale contenente la poesia anonima «In morte di un’amica», attribuita a Stefano Binda dalla Procura Generale di Milano e considerata una sorta di confessione del delitto. Di più, che sia ascoltato in aula l’avvocato bresciano Piergiorgio Vittorini, che a suo tempo fece scalpore sostenendo di conoscere il vero autore della poesia anonima (in primo grado ha scelto di non dire nulla, non potendo e non volendo violare il segreto professionale); e, ancora, che sia dato il giusto peso all’esito degli accertamenti sul cadavere riesumato di Lidia Macchi, che escludono correlazioni tra la vittima e Binda.
Ma contro il verdetto di fine pena mai c’è anche l’impugnazione del sostituto procuratore generale di Milano Gemma Gualdi, rappresentante della pubblica accusa nel procedimento avocato dalla Procura generale del capoluogo lombardo nel novembre del 2013, su sollecitazione della famiglia Macchi, dopo che il fascicolo è rimasto a lungo senza alcuna svolta negli uffici della Procura varesina per oltre 26 anni. Nel mirino il mancato riconoscimento da parte della Corte d’assise presieduta dal giudice Orazio Muscato di una delle aggravanti contestate nel capo d’imputazione e, cioè, quella secondo cui Binda avrebbe ucciso per «motivi futili e abietti».
Se fosse accolto il ricorso della Procura generale, all’ergastolo si aggiungerebbe un periodo di isolamento diurno. Infine, parte civile, la mamma e i fratelli di Lidia, rappresentati dall’avvocato Daniele Pizzi.
«Nel corso del processo di primo grado ci siamo resi conto di come - al pari, purtroppo, di molti testimoni che erano sotto l’obbligo del giuramento - Stefano Binda non abbia mai raccontato la verità sulla morte di Lidia», spiega in una nota il patrono civile.
«Ci appelliamo a lui, affinché colga questa ennesima occasione processuale per liberarsi la coscienza e dire finalmente tutto ciò che sa».
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