LA SENTENZA
Lite su Facebook. «Non è reato»
La Cassazione sul caso dello scontro social fra due donne per un uomo. Il commento a Varese della presidente degli avvocati e del docente di Storia contemporanea

I panni sporchi si lavano, ormai, anche su Facebook. Scambi di pesanti critiche, rivelazioni di fatti e attriti che diventano, nei profili aperti, di dominio pubblico. C’è un aspetto che riguarda il buon gusto. Ma c’è soprattutto una questione giuridica: si può o non si può? Dove sta il confine tra le “punzecchiature” tollerabili e quelle che sconfinano nella diffamazione? E ancora: i Social sono come parlarsi faccia a faccia, con platea intorno di spettatori?
Del caso si è occupata la Corte di Cassazione, fornendo un’interpretazione che fa giurisprudenza. Ecco la vicenda sottoposta alla valutazione degli Ermellini (impugnazione, ovviamente, di una sentenza che giunge così all’ultimo grado di giudizio). Si tratta di uno scontro su Facebook tra donne: un’ex moglie e l’attuale compagna di lui. Quest’ultima si era scagliata su Facebook contro l’ex consorte del suo partner invitandola ad andare a lavorare e non limitarsi a prendere l’assegno di mantenimento che l’uomo, peraltro, aveva chiesto di ridimensionare, pur esibendo sui Social (questo lo evidenzia piccata nel sequel su Fb l’ex consorte) una stile di vita elevato. Contenuti diffamatori in quell’«invito» ad andare a lavorare? La Cassazione ha stabilito di no. Primo perché, volendo sintetizzare il dispositivo, la polemica «pur attuata con toni aspri, ironici e sferzanti» non travalica il limite della continenza, «non sono immotivatamente aggressivi», ma s’inquadra «nel legittimo esercizio di critica» e poi perché rientra in una dialettica tra le due già avviata su Facebook. Così è deciso. Fuor di sentenza, resta il dubbio se “cantarsele” sui Social sia un passo avanti o tre indietro...
«Si smascherano anche i nickname»
«Con il dilagare dell’uso dei social network è diventato sempre più frequente l'accertamento da parte dell'ufficio della Procura e nelle aule dei tribunali, di condotte penalmente rilevanti». È la premessa di Elisabetta Brusa, presidente dell’Ordine degli avvocati di Varese che fa alcune riflessioni a seguito della sentenza della Cassazione. «Il social network è considerato giuridicamente un vero e proprio "luogo aperto al pubblico", sicché l'uso improprio di tale strumento può portare alla sussistenza dei presupposti del reato di diffamazione. Molti non sanno che la comunicazione di contenuti diffamatori attraverso la bacheca di un utente, visualizzabile da tutti coloro che hanno accesso al profilo, costituisce diffamazione aggravata poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere molte persone a prescindere dal fatto che tra queste vi sia o meno il destinatario delle espressioni offensive». «Così come - aggiunge Elisabetta Brusa - molti sono convinti che in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post per il tramite dell’indirizzo IP dell’utenza telefonica intestata a un determinato soggetto, non sia possibile pervenire alla riferibilità della diffamazione su base indiziaria. Ma questo non è vero perché nei casi in cui si riscontri la convergenza, pluralità di dati quali il movente, l'argomento su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell’imputato con utilizzo del suo nickname, può esservi condanna penale nel caso in cui la persona offesa denunci». Infine il consiglio: «Evitare di esternare qualsiasi pensiero diffamatorio, non è cosi difficile risalire all’autore».
«Educazione digitale nelle scuole»
«Questo caso fa emergere alcune riflessioni io credo significative: innanzi tutto che sia necessario nelle scuole, ma in qualche forma anche per gli adulti, insegnare “educazione digitale”, equiparare cioè la conoscenza del virtuale alla “educazione civica”, onde evitare situazioni pericolose». Questo il commento di Antonio Orecchia, docente di Storia contemporanea all’università dell’Insubria. «Ma non solo: questo caso emblematico mostra che l’abuso dei social non è una questione generazionale, ma investe anche chi giovane non è. E, dunque, se possibile la situazione è ancora più complessa, poiché investe almeno due generazioni, padri e figli). «Si dovrebbe meditare - aggiunge il professor Orecchia, grande esperto di comunicazione ed evoluzione dei costumi sociali - su questa tendenza a mettere in piazza i fatti e le questioni personali che ormai sembra quasi una normalità. I nostri nonni dicevano che era una cosa da maleducati, ma ora, ognuno si comporta come vuole. Nondimeno forse dietro questa tendenza vi è una non esatta e completa conoscenza della rilevanza e delle implicazioni del mezzo, in questo caso Facebook ma riguarda tutto il mondo del web, e della devastante capacità di trasmissione e di divulgazione di qualsiasi cosa compaia in pubblico, cioè sullo schermo». «Essendo i protagonisti finiti davanti al giudice, vi è tutta la questione della legge. Non entrando ovviamente nelle decisioni prese, non pochi, anzi io credo la maggioranza non si è ancora resa conto che le parole hanno rilevanza anche giuridica. Sul web non si può fare quello che si vuole. Le parole pesano: a voce, sulla carta e sullo schermo. E bisogna tenerlo sempre presente».
Pasquale Martinoli
© Riproduzione Riservata